CAPITOLO 5
COME L'ANTICA FORMA DEL GOVERNO ECCLESIASTICO SIA STATA ANNIENTATA DALLA TIRANNIDE PAPALE

1. È necessario, a questo punto, esaminare qual sia la forma di governo ecclesiastico oggi in uso nel papato e presso tutti coloro che ne dipendono, paragonandola con quella che abbiamo riscontrato nella Chiesa antica. Questo raffronto rivelerà, infatti, quale Chiesa abbiano tutti costoro che si vantano e glorificano di quel solo titolo e dove traggono motivo di orgoglio per opprimerci, anzi per annientarci.
È opportuno prendere l'avvio dal problema della vocazione, e chiarire quali persone siano quivi chiamate al ministero e con quali mezzi essi vi siano introdotte. Esamineremo appresso come assolvono il loro mandato.
Ai vescovi sarà dato il primo posto nel nostro esame senza però che ne ricavino un primato di onore. Sarebbe certo mio desiderio che l'apertura del dibattito risultasse ad onore loro, purtroppo è impossibile trattare il nostro argomento senza che ne derivi per loro motivo di vergogna, e un biasimo severo al loro indirizzo. Voglio tuttavia ricordarmi del mio proposito: insegnare con semplicità e non fare lunghe diatribe; cercherò perciò, nei limiti del possibile, di essere breve.
Desidererei, per entrare in argomento, che una persona onesta mi dicesse quale tipo di persone è oggigiorno eletta alla carica di vescovo. È inutile scegliere come metro di valutazione la dottrina; quando infatti venga presa in considerazione si elegge un uomo di legge cui si addice il perorar cause più che il predicar nei templi. È notorio che da un centinaio di anni a questa parte si trova a mala pena un vescovo su cento che abbia qualche nozione di Sacra Scrittura. Non mi riferisco alla situazione anteriore, non tanto perché fosse migliore ma perché dobbiamo parlare dello stato attuale della Chiesa.
Passando a considerare la loro vita se ne trovano ben pochi, anzi nessuno, che in base agli antichi canoni non si dovrebbero giudicare indegni. Chi non è ubriacone è scapestrato; se ne trova uno non macchiato da questi vizi? Eccolo dedito al gioco o alla caccia o dissoluto in qualche altro aspetto della sua vita. I canoni antichi escludono dalla carica di vescovo per vizi ben minori di quelli!
Ancor più assurdo è il fatto che i ragazzi di dieci anni siano stati ordinati vescovi e si sia scaduti ad un tale livello di stupidità e sfacciataggine da tollerare, senza difficoltà, tali turpitudini in contrasto Cl. Buon senso.
Da ciò risulta il carattere di santità di elezioni del genere, in cui si son tollerate così gravi negligenze.
2. Anzi si è interamente abolita la libertà del popolo nella elezione del vescovo. Sono scomparse le votazioni, i suffragi, i referendum e cose simili. L'autorità è stata interamente trasferita ai canonici e costoro attribuiscono i vescovati a chi piace loro. Colui che viene eletto è presentato al popolo, certo, ma per essere adorato, non per essere esaminato.
Leone si dichiara contrario a questa prassi affermando che non è giustificata da nessun motivo e si tratta di un arbitrio. San Cipriano, dichiarando che deve essere considerato di diritto divino il fatto che una elezione si faccia in base al consenso popolare, attesta implicitamente che una elezione fatta in forma diversa è contraria alla parola di Dio. I decreti di molti concili vietano questo perentoriamente e dichiarano nulle le elezioni fatte in tal modo. Se le cose stanno così oggi in tutto il papato non Si trova una sola elezione canonica, che possa legittimamente approvarsi sulla base del diritto divino o di quello umano. Quand'anche si riscontrasse questo solo inconveniente possono forse giustificarsi di aver spogliato la Chiesa del suo diritto così facendo? Fu la malvagità dei tempi a richiederlo, replicano; lasciandosi il popolo trasportare nella elezione dei vescovi da odio e favoritismi, più di quanto si lasciasse ispirare da un retto giudizio, era necessario trasferire questa autorità al corpo dei canonici .
Pur ammettendo che si debba ravvis.re in questo provvedimento il rimedio per un male gravissimo, mi domando tuttavia perché non si ponga rimedio a questo nuovo guaio, quando Si deve riconoscere che la medicina è molto più nociva del male stesso? Rispondono che i loro decreti proibiscono severamente ai canonici di far uso del loro potere a danno della Chiesa seguendo il proprio interesse. Dobbiamo forse mettere in dubbio il fatto che anticamente il popolo si sia sentito vincolato da sante leggi considerando le regole che gli erano proposte dalla parola di Dio per la elezione dei vescovi? Una sola parola di Dio infatti aveva un valore incomparabilmente superiore a cento milioni di canoni ecclesiastici. Corrotto invece da cattivi sentimenti non teneva in considerazione alcuna né la ragione né le leggi.
In questa materia le leggi odierne scritte, quantunque buone, sono nascoste e sepolte nelle carte mentre si accoglie e pratica l'uso di ordinare quali pastori della Chiesa solamente barbieri, cuochi, tavernieri e mulattieri, bastardi e simile gente. Anzi, dir questo è dir poco: i vescovati e le canoniche vengono assegnati quale premio di dissolutezza e di ruffianeria. Quando siano dati a uccellatori e guardiacaccia la cosa va benissimo, non è certo il caso di proibire tali abominazioni con regolamenti.
Anticamente, ripeto, il popolo aveva ottimi canoni essendogli dimostrato dalla parola di Dio che un vescovo deve essere irreprensibile sotto il profilo dottrinale, non essere litigioso, non avaro ecc. . . . .
Perché dunque l'incombenza di eleggere i ministri è stata sottratta al popolo e affidata a questi prelati? Non hanno risposta alcuna se non affermare che il popolo, con le sue partigianerie e i suoi intrighi non prestava attenzione alla parola di Dio. Se questo è realmente il caso perché non si toglie oggi quest'incarico ai canonici, che non solo violano ogni legge, ma confondono senza vergogna e senza pudore cielo e terra con la loro avarizia, ambizione, sregolatezza, cupidigia?
3. Che tale sistema sia stato introdotto quale rimedio è falso. Certo le città furono spesso agitate a causa dell'elezione del loro vescovo, tuttavia nessuno pensò mai di dover sottrarre al popolo la libertà di elezione. Altri provvedimenti erano a disposizione per evitare quel male e porvi rimedio, qualora fosse stato commesso.
La verità, invece, è un'altra: col passar del tempo il popolo disinteressandosi a questa elezione ne ha lasciato l'incombenza ai preti. Costoro, abusando dell'occasione, hanno usurpato quel potere assoluto che esercitano tuttora, e lo hanno ribadito con nuovi canoni . Il modo di ordinare o consacrare vescovi è una beffa bella e buona. La finzione di esame, a cui ricorrono, è così frivola e ridicola da non aver neppure le premesse per ingannare la gente.
Nelle trattative che i prìncipi conducono oggigiorno Cl. Papa per la nomina dei vescovi, la Chiesa non ha nulla da perdere; è infatti semplicemente sottratto ai canonici il diritto di elezione che possedevano contrariamente ad ogni legge, che anzi avevano usurpato. È evidentemente disonorevole e deplorevole che i vescovati vengano così offerti in preda a cortigiani e sarebbe compito di un buon principe il sottrarsi a tali corruzioni. Siamo infatti in presenza di una sopraffazione iniqua: un vescovo viene posto a capo di un popolo che non lo ha richiesto o per lo meno liberamente accolto. La confusa e disordinata prassi in uso, da lungo tempo, nella Chiesa, ha offerto ai prìncipi il destro per rivendicare la presentazione dei vescovi. Hanno preferito che la riconoscenza fosse dovuta a loro anziché al clero che in questa elezione non aveva maggiori diritti di quanti ne abbiano loro e agiva in modo altrettanto abusivo.
4. In base dunque a questa bella vocazione i vescovi si vantano di essere successori degli apostoli. Riguardo alla creazione dei preti ne rivendicano bensì il diritto ma in questo corrompono l'uso antico in quanto non ordinano preti in vista del governo o dell'insegnamento ma in vista del sacrificio. Analogamente non consacrano i diaconi in vista del loro vero ufficio, ma solo per adempiere alcune cerimonie quali presentare il calice o la patena.
Il concilio di Calcedonia ha proibito di accogliere qualcuno nel ministero in forma generica, senza cioè assegnare un luogo preciso in cui detto ministero si debba esercitare. Questa norma risulta molto opportuna sotto un duplice profilo. In primo luogo affinché la Chiese non siano aggravate da spese superflue e denari destinati ai poveri non siano spesi per il mantenimento di persone oziose. In secondo luogo affinché coloro che sono ordinati si rendano conto di non essere chiamati ad una carica onorifica ma ad una missione all'adempimento della quale si impegnano con questa solenne cerimonia.
I dottori papisti, che di nulla hanno cura se non del ventre, e pensano non si debba nella cristianità aver riguardo ad altro, sostengono che i titoli occorrenti per essere accolti siano le rendite per il proprio sostentamento; si tratti di benefici o del proprio patrimonio. Quando perciò nel sistema papista si ordina un diacono o un prete non ci si dovrà preoccupare che abbia un luogo dove servire; lo si accoglierà senza difficoltà purché sia sufficientemente ricco da potersi mantenere. Chi può accettare però questa interpretazione secondo cui il titolo richiesto dal Concilio siano le rendite annue per il sostentamento? Anzi, poiché i canoni posteriori hanno ingiunto ai vescovi di provvedere essi stessi a coloro che, senza titoli sufficienti, fossero stati accolti, per mettere freno alla eccessiva facilità nell'accogliere tutti i candidati, si è trovato un nuovo sotterfugio per eludere quella clausola pericolosa. Colui che pone la sua candidatura, avendo un qualche beneficio, dichiara di accontentarsene. In base a questa dichiarazione si trova nell'impossibilità di porgere querela, in un secondo tempo, contro il vescovo riguardo al suo sostentamento.
Tralascio dal menzionare i mille sotterfugi in uso quali l'attribuir benefici immaginari di cappelle da quattro soldi o di vicariati privi di valore, il chiedere in prestito un beneficio con la clausola di restituirlo, quantunque poi molti finiscano Cl. Tenerlo, ed altri simili accorgimenti.
5. Quand'anche fossero eliminati questi abusi maggiori, non risulta pur sempre assurdo l'ordinare un prete senza assegnargli una sede? Sono ordinati per compiere sacrifici soltanto, mentre il governo della Chiesa è il legittimo fondamento per la consacrazione di un sacerdote come lo è la cura dei poveri per un diacono. Rivestono, è vero, di gran pompa e di molti gesti le loro nomine per indurre i semplici a devozione, che significato può però avere, per le persone di buon senso, questa finizione visto che risulta del tutto priva di sostanza e di valore? Ricorrono infatti a cerimonie che hanno in parte ereditate dagli Ebrei e in parte inventate essi stessi, da cui sarebbe stato meglio astenersi.
Riguardo al consenso popolare e agli altri elementi necessari non c'è nulla da aggiungere perché non prendo in considerazione il loro teatro. Chiamo teatro tutti quegli stupidi riti cui ricorrono per far credere che seguono le tradizioni antiche. I vescovi hanno dei vicari per vagliare le conoscenze dei candidati. Ma possiamo parlare di esame? Ti richiedono la conoscenza della messa, la declinazione di qualche termine comune, la coniugazione di un verbo o il significato di una parola, come si potrebbe fare con un ragazzo a scuola. L'eventualità di far tradurre una parola dal latino in francese neppure gli passa per la testa. C'è di più! Coloro che zoppicheranno in queste sia pur modeste conoscenze, non saranno infatti respinti purché rechino qualche dono o si muniscano di qualche raccomandazione.
Non diversamente avviene la presentazione all'altare del candidato promosso. Viene chiesto, a tre riprese, se si debba ritenere degno, in latino, e qualcuno che non lo ha mai neppur visto o un garzone che ignora del tutto il latino risponde: ne è degno, in latino, così come si recita una parte in qualche farsa.
Che rimproveri potremmo muovere a questi santi padri e venerabili prelati se non che, recitando sì orribili sacrilegi, si fanno apertamente beffa di Dio e degli uomini? Ma poiché hanno seguito questo andazzo già da lungo tempo, tutto sembra essere loro lecito. Se qualcuno ha l'ardire di aprire bocca contro azioni così esecrabili è in pericolo di vita quasi avesse commesso un delitto capitale. Agirebbero così se pensassero che vi è un Dio in cielo?
6. Riguardo al conferimento di benefici, anticamente congiunti con l'ordinazione, la situazione è forse migliore? Diverse sono, fra loro, le modalità dell'attribuzione. Non soltanto i vescovi, infatti, conferiscono benefici; e quando lo fanno non è sempre di loro esclusiva autorità. In realtà ognuno arraffa quello che può. Vi sono inoltre le nomine ai gradi ecclesiastici, le remissioni dei benefici per cessazione o permute, le assegnazioni, i diritti di prelazione e tutta quella congerie di cavilli. Comunque sia, Papa e legati, vescovi e abati, priori, canonici e laici si comportano in modo tale che nessuno è in grado di muovere al suo compagno un qualche rimprovero.

Sono d'avviso che oggi come oggi, in tutto il papismo, si conferisce a mala pena l'un per cento dei benefici senza simonia, se applichiamo la definizione che gli antichi hanno dato di simonia. Non vorrei affermare che tutti acquistino benefici, denaro alla mano; mi si dimostri però che più di uno su cinquanta non ha ottenuto benefici per vie traverse. Gli uni fanno carriera valendosi dei vari legami di parentela, gli altri del credito dei famigliari o dei loro servizi. Insomma questi benefici non sono conferiti per provvedere alle Chiese ma agli uomini. Son detti "benefici "proprio per questo, e il termine dimostra che vengono considerati unicamente quali doni gratuiti o ricompense. Tralascio dal sottolineare il fatto che spesso si tratta di rimunerare barbieri, cuochi, mulattieri o simili canaglie. Anzi, non c'è oggi campo giuridico in cui i processi siano così frequenti come in quello dei benefici, al punto da suggerire il paragone con la selvaggina su cui si precipitano i cani. È tollerabile il fatto che si dica pastore di una Chiesa un individuo che l'ha occupata quasi come un territorio nemico conquistato, oppure l'ha ottenuta con una azione legale, a caro prezzo, o in virtù di servigi disonesti? Che dire infine dei bambini che ricevono benefici da zii e cugini quasi si trattasse di una eredità?, O addirittura di bastardi che li ricevono dai loro padri?
7. Il popolo stesso, per quanto corrotto e depravato, avrebbe mai osato spingersi a sì disordinata licenza? Mostruosità ancora più grave è però il fatto che un uomo, non faccio nomi, un uomo che non è in grado di governare se stesso abbia la responsabilità di cinque o sei Chiese. Si incontrano al giorno d'oggi giovani buffoni alla corte dei prìncipi in possesso di un arcivescovato, due vescovati, tre abbazie. È realtà quotidiana incontrar canonici titolari di sei o sette benefici di cui tuttavia non si curano affatto, se non per riceverne la rendita.
Evito di far notare che la parola di Dio, è nella sua totalità, contraria a tali cose, dato il poco conto in cui la tengono da lunga data. Né ricorderò che i concili antichi hanno emanato molte leggi per porre un freno a tali abusi, in quanto disprezzano canoni e decreti ogni qualvolta fa loro comodo. Affermo però trattarsi di due fatti esecrabili e riprovevoli che ripugnano a Dio, alla natura e al governo della Chiesa che briganti e ladri occupino da soli parecchie Chiese, o sia detto pastore un uomo che non ha la possibilità di essere in mezzo al suo gregge anche quando ne abbia il desiderio. E tuttavia tale è la loro sfrontatezza che, per non essere biasimati, mascherano queste abominevoli lordure Cl. Nome di Chiesa. Ciò che è peggio, quella famosa successione di cui si prevalgono, per sostenere che dal tempo degli apostoli la Chiesa si è mantenuta fra loro sino ad oggi, sta rinchiusa in queste perversioni.
8. Esaminiamoli ora alla luce del secondo elemento con cui si valuta un pastore autentico: cioè la fedeltà con cui esercita il suo ufficio.
I preti che costoro ordinano sono, per ricorrere alla loro terminologia, in parte religiosi, in parte secolari. I primi sono stati del tutto sconosciuti nella Chiesa antica. E in realtà l'ufficio del sacerdozio e in contrasto così aperto con i voti monastici che, anticamente, un monaco eletto nel clero usciva dallo stato primitivo; lo stesso san Gregorio, al cui tempo già si manifestavano molti vizi, non tollera questa confusione. Egli chiede infatti a chi è eletto abate, di abbandonare il clero, nessuno potendo essere allo stesso tempo monaco e chierico perché una condizione esclude l'altra.
Se a questo punto chiedessi loro come possa assolvere il suo compito chi non risulti idoneo al suo ufficio in base ai canoni, che potranno rispondere? Citeranno, immagino, quegli aborti di decretali di Innocenzo e Bonifacio che accolgono al sacerdozio un monaco pur lasciandolo ancora nel chiostro . Ma è forse ragionevole che un asino del tutto privo di conoscenza e di esperienza annulli, non appena ha occupato la Sede romana, tutti gli ordinamenti antichi con una parola? Di questo avremo occasione di parlare in seguito. Per ora è sufficiente ricordare che nei tempi in cui la Chiesa era pura si considerava somma assurdità che un monaco entrasse nel sacerdozio. San Girolamo infatti nega di essere in veste di prete quando si intrattiene coi monaci, ma si considera laico bisognoso della guida dei preti.
Quand'anche perdonassimo questo errore, in che modo esercitano però il loro ufficio? Qualche mendicante, qualche predicatore, pochi; il rimanente non ha altra funzione che recitar o cantar messa nelle loro spelonche quasi Gesù Cristo avesse creato i sacerdoti a questo scopo o lo richiedesse la natura dell'ufficio. La Scrittura vede, al contrario, nel governo della Chiesa la funzione propria dei preti (At. 20.28). Non è forse dunque profanazione pestilenziale il volgere ad altro fine, anzi il sovvertire interamente la santa istituzione di Dio? Quando infatti sono ordinati si proibisce loro esplicitamente di fare ciò che il Signore ordina ad ogni prete. Infatti si dichiara loro: un monaco si accontenti del chiostro, non presuma né di insegnare, né amministrare i sacramenti, né esercitare altro pubblico incarico. Possono forse negare che il creare un prete, con l'intenzione di allontanarlo dall'ufficio o il conferire un titolo senza che si assolva l'incarico, non sia beffarsi esplicitamente di Dio?
9. Passiamo al clero secolare, in parte munito di benefici, come dicono, cioè sistemato per quanto riguarda il ventre, praticoni che si procurano il pane cantando, biascicando preghiere, raccogliendo confessioni, portando morti in terra e altre simili cose. I benefici? Alcuni, quali i vescovati o le canoniche implicano cura d'anime, altri sono occupazioni di gente delicata che trascorre la vita cantando: le prebende, i canonicati, le dignità varie, le cappelle e altre cose simili. Tutto procede però in modo così arbitrario che abbazie e priorati vengono attribuiti non solo a preti regolari ma a bambini, e questo diventa prassi corrente, sulla base di privilegi.
Che dire di quei preti mercenari, facchini che si affittano a giornata? Che altro potrebbero fare se non ciò che fanno? Esercitare, prostituendosi, un vergognoso e peccaminoso mercato di tale ampiezza. Vergognandosi però di mendicare apertamente o temendo di non trovare, così facendo, sufficiente profitto, van correndo qua e là come cani famelici e importuni, strappano abbaiando, con la forza, dagli uni e dagli altri qualche boccone da cacciarsi in pancia.
Volessimo dimostrare, a questo punto, qual disonore rappresenti per la Chiesa questa degradazione dello stato sacerdotale, il discorso non avrebbe mai fine. Non ricorrerò dunque a lunghe querimonie per illustrare la vastità di tali turpitudini. Dico solo, in breve, che se l'ufficio di prete consiste nel pascere la Chiesa e amministrare il regno spirituale di Cristo, come ordina la parola di Dio e richiedono i canoni antichi, tutti i preti, che non hanno altra occupazione o retribuzione che far mercato di messe e preghiere, non solo si sottraggono al loro compito ma non esercitano alcun ufficio legale. Non si attribuisce infatti loro un luogo dove insegnare. Non hanno alcun gregge da governare. Non rimane, loro in sostanza nulla fuorché l'altare per offrire Gesù Cristo in sacrificio; il che significa, come vedremo in seguito, sacrificare al Diavolo, non a Dio.
10. Non faccio in questa sede riferimento ai vizi dei singoli ma al male così radicato nelle istituzioni loro da non poter essere eliminato. Aggiungo questo, che sarà sgradito alle loro orecchie, ma va pur detto perché corrisponde a verità: le considerazioni suddette valgono per tutti i canonici, decani, cappellani, preti e tutti coloro che vivono oziosamente di benefici. Quale ministero o servizio possono adempiere nella Chiesa? Si sono scaricati della predicazione della Parola, della responsabilità della disciplina, dell'amministrazione dei sacramenti quasi fossero compiti gravosi. Che rimane loro per cui possano dirsi veri sacerdoti?
Hanno il canto e la pompa delle cerimonie, ma tutto questo non significa nulla in questo caso.
Qualora facciano riferimento alla tradizione, all'uso stabilito mi appellerò alla parola di Cristo in cui ha dichiarato quali siano i veri preti e quali debbano essere le caratteristiche di coloro che si vogliono tali. Non sono in grado di sopportare una condizione così pesante quale quella di sottostare alla regola stabilita da Gesù Cristo? Permettano almeno che questa questione venga risolta sulla base dell'autorità della Chiesa antica; la loro situazione non risulterà migliore affatto se la si giudica sulla base degli antichi canoni. Quelli che sono diventati i canonici attuali erano in origine i preti della città con funzione di governare la Chiesa, unitamente al vescovo, e fungere da suoi assessori nell'ufficio pastorale. Tutte le dignità dei capitoli non hanno attinenza alcuna con il governo della Chiesa, e ancor meno ne hanno cappellanie e simili immondizie prive di valore. In che considerazione dovremo tenerle noi? In modo indubitabile sia la parola di Cristo che la prassi della Chiesa antica respinge tali cose dall'ordinamento sacerdotale. Ciò nonostante insistono nella pretesa di essere preti. Occorre smascherarli e si vedrà che la loro professione è assolutamente diversa ed estranea al sacerdozio quale è stato definito dagli apostoli e richiesto dalla Chiesa antica.
Tutti questi ordini pertanto, e queste condizioni religiose, di qualsivoglia titolo si rivestano, per essere magnificate, visto che risultano essere di creazione recente, o per lo meno senza fondamento nell'istituzione del Signore, né nell'uso della Chiesa antica, non debbono essere prese in considerazione nella trattazione del regno spirituale quale è stato stabilito per bocca di Dio stesso e accolto dalla Chiesa. Vogliono un discorso più esplicito? Visto che tutti i cappellani, canonici, decani, prevosti, cantori e altri ventri oziosi non toccano neppure Cl. Mignolo quanto è richiesto dall'ufficio sacerdotale, non si deve tollerare in alcun modo che violino la sacra istituzione di Gesù Cristo usurpandone indebitamente l'onore.
11. Ci rimane da considerare ora i vescovi e i curati; gran piacere ci recherebbero costoro se mettessero impegno all'adempimento del loro compito, poiché riconosciamo volentieri che il loro incarico è santo e onorevole quando venga eseguito. Quando però, abbandonando le Chiese loro affidate e lasciandone ad altri la cura, hanno, nondimeno, la pretesa di essere considerati pastori, vogliono proprio farci credere che l'ufficio pastorale consista nel non far nulla. Se un usuraio, mai uscito dalle cerchia delle mura cittadine, si spaccia per contadino, o vignaiolo, o un soldato, che ha trascorso la vita in guerra e non ha mai visto un libro né mai è entrato in un'aula giudiziaria, si vanta di essere avvocato o dottore? Nessuno tollererebbe tali ridicolaggini. Costoro si trovano in una condizione ancor più ridicola avendo la pretesa di essere considerati pastori legittimi della Chiesa e non volendo essere tali. Quanti sono fra loro infatti quelli che fanno anche solo finta di eseguire il compito loro? Parecchi divorano, durante la loro vita, il reddito di Chiese a cui neppure si sono accostati per degnarle di uno sguardo. Gli altri vi si recano una volta all'anno o vi mandano un procuratore per ritirare i loro benefici. Quando ebbe inizio questa corruzione coloro che volevano ottenere questa dispensa la richiedevano come un privilegio ma oggi e un caso raro incontrare un curato che risieda nella sua parrocchia. Le considerano infatti come date a mezzadria e delegano i loro vicari a fungere da esattori. Alla stessa natura ripugna che si consideri un uomo pastore di un gregge di cui non ha mai visto neppure una pecora.
12. A quanto pare già ai tempi di san Gregorio cominciava a diffondersi questa mala abitudine di venir meno, da parte dei pastori, alla predicazione ed all'insegnamento del popolo. Egli se ne duole fortemente in alcuni scritti: "il mondo "dice "è pieno di preti e tuttavia se ne trovano pochi operai nella messe . Poiché ricevono sì l'ufficio ma non assolvono l'incarico ". E ancora: "Non avendo carità i preti vogliono essere considerati signori e non si sentono padri. Mutano così l'umiltà in orgoglio e dominio " "Che facciamo noi pastori che riceviamo la mercede e non siamo operai "?: "Ci consacriamo a compiti che non ci competono. Facciamo professione di una cosa e ci impegnamo in altre. Abbandoniamo la carica della predicazione e siamo, a quanto vedo, detti vescovi per nostra sventura in quanto possediamo il titolo in modo onorifico ma non per l'adempimento del mandato ".
Considerando questo suo rigore e questa sua severità nei riguardi di coloro che non adempiono il loro dovere, quantunque lo facessero, almeno in parte, che dovrebbe dire oggi, vi domando, vedendo vescovi che non sono saliti neppure una volta in vita loro sul pulpito per predicare? E fra i curati dove a mala pena se ne troverebbe uno fra cento? Poiché si è giunti ad un punto di tale insensatezza da considerare la predicazione cosa disdicevole e inadatta alla dignità episcopale.
Ai tempi di san Bernardo la situazione era già peggiorata ma vediamo quali rimproveri, e di quale tenore, egli muova al clero. Ed è verosimile supporre che vi fosse allora una serietà e una autorità maggiore di quanto vi siano oggi.
13. Se si considera ora, e si valuta attentamente, la forma di governo oggi vigente nel papismo si constaterà non esservi al mondo ribalderia maggiore. Siamo in presenza, evidentemente, di una realtà così lontana dall'istituzione di Cristo, anzi in aperto contrasto con essa, lontana e opposta alla prassi antica, contraria alla ragione e alla natura, che non si potrebbe recare maggior ingiuria a Gesù Cristo che rivendicandone il nome per giustificare un regime così confuso e corrotto: "Siamo colonne della Chiesa "affermano "prelati della cristianità, vicari di Gesù Cristo, a capo dei credenti in quanto depositari per successione della potenza e dell'autorità apostolica! ". Si vantano di queste fandonie, quasi si rivolgessero a pezzi di legno; ogniqualvolta pero ricorrono a queste millanterie domando loro: che avete in comune con gli apostoli? In questo caso non si tratta infatti di una dignità ereditaria, che venga ad un uomo mentre sta dormendo, ma del compito della predicazione da cui rifuggono così ostinatamente. Quando affermiamo che il loro governo rappresenta la tirannia dell'anticristo replicano subito: "è la santa e venerabile gerarchia che i Padri antichi hanno magnificato e venerato ". Quasi i santi Padri nel lodare e apprezzare la gerarchia ecclesiastica o il governo spirituale, come era stato tramandato dagli apostoli, avessero in mente questo abisso di confusione, in cui i vescovi sono il più delle volte asini che ignorano i rudimenti più elementari della fede cristiana, che dovrebbero essere noti al popolino, o sono a volte ragazzini usciti appena da bailatico, oppure, quando si tratti di una persona dotta, il che accade di rado, considera il vescovato titolo onorifico e di prestigio; una situazione in cui i pastori non si curano di pascere il loro gregge più di quanto un calzolaio si curi di arare dei campi, e ogni cosa risulta così confusa che a mala pena si riscontra una traccia minima di quell'ordine che ebbero i Padri ai loro tempi.
14. Che dovremmo dire passando ad esaminare i costumi? Dove è quella luce del mondo richiesta da Gesù Cristo? (Mt. 5.14). Dove è il sale della terra? Dove quella santità che costituisce norma perenne di vita? Non si incontra oggi condizione umana che più del clero appaia sregolata nelle vanità, nei piaceri, nella dissolutezza di ogni specie. In nessuna condizione umana si annoverano uomini più attivi ed esperti nell'arte dell'inganno, della frode, del tradimento, della slealtà, più audaci ed accorti nel fare il male. Tralascio di far menzione dell'orgoglio, dell'alterigia, dell'avarizia, delle rapine, della crudeltà. Né farò cenno alla sregolata licenza che regna nella loro esistenza. Tutto questo è stato sopportato da lungo tempo dalla gente ma oggi ne è così stufa che non c'è da temere che esageri tracciando questo quadro. Faccio una affermazione che non sono in grado di contestare: si trova forse un vescovo fra tutti gli attuali e un curato su cento che non sia degno di scomunica, o per lo meno di essere sospeso dall'ufficio, qualora si debbano giudicare i loro costumi secondo gli antichi canoni? Questo perché la disciplina anticamente vigente è da lungo tempo caduta in disuso e quasi del tutto sepolta. Quanto sto dicendo sembra incredibile ed è invece realtà.
Si glorino ora, tutti i fautori della Sede romana e i partigiani del Papa dell'ordinamento sacerdotale esistente fra loro. È chiaro che né da Gesù Cristo, né dai suoi apostoli, né dai santi Padri, né dalla Chiesa antica lo hanno ricevuto quale è oggi.
15. Passiamo ad esaminare, ora, il caso dei diaconi e la distribuzione dei beni ecclesiastici come la praticano. In realtà, i loro diaconi non sono creati per questo; infatti non chiedono loro che di servire all'altare, cantare l'evangelo e non so quali altre cose inutili. Delle elemosine, la cura dei poveri, dei compiti che avevano nei tempi antichi non se ne sente più parlare. Mi riferisco alla loro istituzione nella forma in cui essi la considerano valida, perché dovessimo parlare della realtà, dovremmo concludere che l'ordine dei diaconi non è fra loro un ufficio ma solo un grado in vista della promozione al sacerdozio.
C'è un momento nella messa in cui questi attori, che recitano la parte del diacono, mimano la tradizione antica: quando ricevono le offerte che si fanno prima della consacrazione. Secondo la prassi antica i fedeli prima di prendere parte alla Cena si baciavano l'un l'altro, indi offrivano la loro offerta sull'altare. In tal modo rendevano testimonianza della loro carità anzitutto con un segno e poi con una dimostrazione concreta. Il diacono, che fungeva da procuratore dei poveri, riceveva quanto veniva offerto per distribuirlo. Attualmente, di tutte queste elemosine, ai poveri non giunge neppure un soldo, come se si gettasse tutto in fondo al mare. Si fanno perciò beffa della Chiesa con questa apparenza menzognera di ufficio diaconale. Non c'è evidentemente in questo diaconato nulla che ricordi l'istituzione apostolica o l'uso antico.
L'amministrazione dei beni è stata trasferita interamente ad altro uso e disposta in modo tale che non se ne potrebbe inventare di più disordinata. Simili a ladroni che, dopo aver sgozzato un povero viandante, si spartiscono il bottino, questi valent'uomini, dopo aver spenta la luce della parola di Dio, e avendo, se così può dirsi, sgozzato la Chiesa, hanno pensato che tutto ciò che era destinato ad uso sacro fosse loro abbandonato affinché lo potessero depredare e saccheggiare.
16. Pertanto nella spartizione del bottino ognuno ha rubato quanto poteva. È stata così, non solo mutata, ma interamente capovolta la tradizione antica. La maggior parte è caduta in mano ai vescovi e ai preti delle città che, arricchiti da quel bottino, si sono mutati in canonici. A quanto ci è dato sapere, però, questa spartizione di bottino non è avvenuta affatto in modo pacifico perché non vi è capitolo che non stia tuttora litigando con il proprio vescovo. Comunque sia hanno preso provvedimenti perché una cosa fosse chiara: i poveri non ricevono neppure il becco d'un quattrino mentre avrebbero dovuto, per lo meno, ricevere la metà, come era il caso anticamente. I canoni ne assegnano loro esplicitamente la quarta parte e un altro quarto è affidato al vescovo affinché possa provvedere agli stranieri ed altri indigenti. Ognuno intende facilmente quale uso dovessero fare i membri del clero della quarta parte loro assegnata e a che uso dovessero destinarla. Il rimanente quarto, destinato alla riparazione dei templi o altre spese straordinarie, abbiamo visto che in caso di necessità era interamente destinato ai poveri.
Vi chiedo ora, potrebbero costoro, se solo avessero in cuor loro un briciolo di timor di Dio, vivere in pace un'ora sola considerando che il loro cibo, la loro bevanda e ciò di cui si vestono proviene non solo da un furto ma da un sacrilegio? Vorrei almeno, che pur restando imperturbabili dinnanzi al giudizio di Dio, si convincessero che le persone, cui cercano di dimostrare che la loro gerarchia è ordinata in modo sì meraviglioso, sono persone che hanno la testa sul collo e sono in grado di giudicare. Mi dicano insomma se l'ordine dei diaconi è la licenza per commettere furti e sacrilegi. Lo negano? In tal caso sono costretti ad ammettere che questo ordine non esiste più fra loro visto che l'amministrazione dei beni ecclesiastici è palesemente mutata in sacrilega ruberia.
17. Ricorrono, a questo punto, ad un argomento fantasioso; affermano, infatti, che la magnificenza di cui fanno uso è un mezzo lecito, atto a salvaguardare la dignità della Chiesa. Altri esponenti di quella cricca sono così spudorati da affermare che quando gli ecclesiastici sono simili ai prìncipi nella magnificenza e nella pompa vengono adempiute le profezie che promettono questa gloria per il regno di Cristo. "Non invano "dicono: Dio ha così parlato alla sua Chiesa: "I re verranno e ti adoreranno, ti recheranno doni " (Sl. 72.10) : "Risvegliati, risvegliati, rivestiti della tua gloria, o Sion, rivestiti dei vestimenti della tua magnificenza, o Gerusalemme; quelli di Saba verranno tutti quanti, porteranno oro ed incenso; e predicheranno le lodi del Signore. Tutte le greggi di Chedar si raduneranno presso di te " (Is. 52.1; 60.6).
Divertirsi a polemizzare contro queste spudoratezze significherebbe fare la figura dello sciocco; non spenderò pertanto parole inutili. Chiedo loro tuttavia: che risponderebbero ad un Giudeo che facesse uso di queste testimonianze in un senso analogo; ne criticherebbero la stupidità, in quanto verrebbe così trasferito sul terreno della carne e del mondo, cose dette spiritualmente del regno spirituale di Gesù Cristo. Sappiamo infatti che i profeti ci hanno raffigurato sotto figure di realtà terrene la gloria celeste di Dio destinata a risplendere nella Chiesa. In verità di tali benedizioni esteriori mai vi è stata così poca abbondanza come nell'età apostolica e tuttavia riconosciamo che il regno di Gesù Cristo è stato allora nella sua fioritura.
"Che significano dunque queste dichiarazioni profetiche? "dirà alcuno. Il significato è questo: tutto ciò che è prezioso, grande, eccellente deve essere sottomesso a Dio. Riguardo all'affermazione che i re sottoporranno il loro scettro a Gesù Cristo, gli faranno omaggio delle loro corone e gli consacreranno le loro ricchezze quando mai tale promessa fu adempiuta in modo più completo che quando l'imperatore Teodosio, abbandonando il suo manto di porpora e le insegne imperiali Si presentò a sant'Ambrogio per far solenne penitenza come un volgare uomo del popolo? Ovvero quando lui stesso e gli altri prìncipi cristiani si sono impegnati a conservare la pura dottrina della verità nella Chiesa e mantenere i buoni dottori? Che i preti non godessero in quei tempi di ricchezze superflue è dimostrato chiaramente dalla sentenza del concilio di Aquileia presieduto da sant'Ambrogio: la povertà è titolo di gloria e di onore per i ministri di Gesù Cristo. I vescovi avevano indubbiamente a disposizione redditi di cui avrebbero potuto servirsi per vivere nel lusso, qualora avessero giudicato che la vera gloria della Chiesa consiste in questo; ben sapendo invece che nulla contrasta più apertamente l'ufficio pastorale quanto una ricca tavola, lusso nel vestire, palazzi sontuosi, serbarono quell'umilità e quella modestia che Gesù Cristo ha richiesto ai suoi ministri.
18. Non volendo dilungarmi eccessivamente su questo punto, riconsideriamo brevemente quanto la dispensazione, sarebbe più esatto dire la dissipazione, dei beni ecclesiastici sia lungi dall'autentico ministero di diacono quale ci è presentato nella parola di Dio, e quale è stato attuato nella Chiesa antica. Riaffermo che quanto viene impiegato nell'ornare templi è impiegato male, qualora non ci si attenga a quella sobrietà richiesta dalla natura e dal carattere del servizio divino e dei sacramenti cristiani, e di cui ci hanno fornito insegnamenti ed esempio gli apostoli e i santi Padri. In che cosa invece i templi odierni si accordano con queste premesse? Si dis.pprova in ogni cosa la moderazione, non dico la povertà dei primi tempi, ma una onesta sobrietà; nulla al giorno d'oggi piace se non ha sapore di superfluità e di corruzione. Lungi però dall'aver cura dei veri templi, quelli viventi, si tollera più facilmente che centomila poveri muoiano di fame piuttosto che fondere un solo calice o spezzare una cannuccia d'argento per recare sollievo alla loro indigenza.

Né vorrei dar l'impressione di eccedere in polemica con affermazioni troppo personali; invito perciò i lettori a riflettere ad una cosa: che direbbero i santi vescovi summenzionati, cioè Esuperio, Acacio, sant'Ambrogio se risuscitassero dai morti. Non approverebbero certamente che in presenza di sì grandi necessità di soccorrere i poveri le ricchezze della Chiesa vengano destinate ad altro uso e opere inutili; ma sarebbero ancor più risentiti vedendo che l'impiego di queste ricchezze, anche quando non vi sono poveri o necessità immediate a cui consacrarle, dà luogo a così perniciosi abusi.
Lasciamo da parte il giudizio degli uomini. Questi beni sono dedicati a Gesù Cristo, debbono dunque essere destinati ad un uso conforme alla sua volontà. Non risulta perciò di alcuna utilità ascrivere al conto di Gesù Cristo delle spese fatte senza suo ordine, perché non le avvallerà. Quantunque, a dir il vero, non è ingente il reddito ordinario della Chiesa che viene speso in vasellame, parimenti, immagini e altre cose simili perché nessun vescovato risulta abbastanza provvisto, né abazia abbastanza pingue o beneficio soddisfacente a soddisfare la cupidigia di quelli che ne dispongono, quand'anche si accumulassero tutti. Allo scopo di effettuare risparmi sulle proprie rendite spingono il popolino a queste pratiche superstiziose inducendolo a convertire il denaro destinato ai poveri in edificazione di templi, costruzione di immagini, dono di reliquiari e calici, acquisto di pianete ed altri paramenti. Questo è il baratro che quotidianamente divora tutte le oblazioni e le elemosine.
19. Riguardo al reddito che ricavano da eredità, possedimenti potrei dire qualcosa che già non sia stato detto e che tutti non vedano chiaramente? Constatiamo con quanta coscienziosità ne amministrano la maggior parte vescovi ed abati. Non è forse follia pretendere trovare qui un ordinamento ecclesiastico? È cosa opportuna che vescovi e abati scimmiottino i prìncipi in servitù, lusso di abbigliamento, tenore di casa e di vitto considerando che la loro vita deve essere un esempio e un modello di sobrietà, temperanza, modestia ed umiltà? Appartiene forse all'ufficio pastorale accaparrarsi non solo città, borghi, castelli ma principati, contee, ducati e mettere infine la mano sui regni, quando il preciso comandamento di Dio proibisce loro cupidigia, avarizia e ordina loro di accontentarsi di una vita sobria?
Se disprezzano la parola di Dio che atteggiamento assumeranno dinanzi agli antichi decreti dei concili ove è ordinato che il vescovo abbia la sua casetta accanto al tempio, tavola sobria, casa modesta? Che risposta daranno a quel decreto del concilio di Aquileia che dice la povertà essere gloria ed onore di un vescovo cristiano? Rifiuteranno certamente, come eccessivamente difficile, quanto san Girolamo ordina a Nepoziano, che cioè poveri e forestieri abbiano libero accesso alla sua tavola e con essi Gesù Cristo. Ma avranno vergogna di negare quanto è detto appresso, che la gloria di un vescovo consiste nel provvedere ai poveri ed è ignominioso per un prete cercare il proprio personale tornaconto. Non possono però accettare questo senza autocondannarsi tutti insieme.
Non è però il caso di perseguirli con maggior severità visto che la mia intenzione è stata solo di dimostrare che l'ordine dei diaconi risulta già da lungo tempo annullato fra loro, affinché non ricorrano più oltre a quel titolo per sopravalutare la loro Chiesa. Ritengo perciò aver adempiuto su questo punto quanto mi proponevo.
CAPITOLO 6
IL PRIMATO DELLA SEDE ROMANA
1. Abbiamo sin qui illustrato le forme in cui si è attuato il governo nella Chiesa antica e la loro progressiva degenerazione, verificatasi Cl. Passare del tempo, sino ad essere oggi, nella Chiesa papale, puramente nominali, anzi unicamente finzioni. Ho effettuato questa analisi affinché i lettori possano giudicare, sulla base di questo confronto, quale tipo di Chiesa esista oggi fra i romanisti che ci accusano di essere scismatici perché separati da loro. Non abbiamo però ancora menzionato quello che costituisce il vertice e il coronamento di questa situazione cioè il primato della Sede romana, in base al quale si sforzano di dimostrare che la Chiesa cattolica esiste solo presso di loro. Non ne abbiamo sin qui parlato in quanto detta istituzione non trae la sua origine né dalla istituzione di Gesù Cristo, né dalla prassi della Chiesa primitiva, come è invece il caso per le cariche di cui abbiamo parlato e che abbiamo visto scendere dall'età antica perdendo, a causa della corruzione dei tempi, la loro purezza, anzi giungendo al punto da essere del tutto sovvertite.
Tuttavia i nostri avversari si sforzano, come ho detto, di convincere il mondo che il fondamentale e l'unico vincolo dell'unità ecclesiastica sia rappresentato dall'adesione alla Sede romana e dall'obbedienza ad essa. L'argomento su cui si fondano, volendo sottrarci la realtà della Chiesa per rivendicarla a se, consiste in questo: essi hanno il capo da cui dipende l'unità della Chiesa, e in assenza del quale essa non può che risultare dispersa e distrutta. Questa è infatti la loro fantastica teoria: la Chiesa non è che un tronco privo di testa quando non sia sottomessa alla Sede romana come al suo capo. Quando perciò affrontano il problema della loro gerarchia iniziano sempre con questa affermazione: il Papa presiede sulla Chiesa universale in assenza di Gesù Cristo, quale suo vicario, la Chiesa non può essere dovutamente ordinata se questa sede non abbia il primato su tutte le altre.
È dunque necessario esaminare anche questo punto per non tralasciare nulla che interessi un retto governo della Chiesa.
2. Il nucleo centrale della questione consiste in questo: è necessariamente richiesto da una gerarchia autentica, cioè dal governo della Chiesa, la preminenza, in dignità e autorità, di una sede sulle altre, sì da assumere il carattere del capo di un corpo? La Chiesa si troverebbe in una condizione estremamente pesante e iniqua qualora le fosse imposto questo, senza la parola di Dio. Se i nostri avversari vogliono perciò che le loro rivendicazioni siano accettate devono dimostrare innanzitutto che questo ordinamento è stato istituito da Gesù Cristo.
Credono poterlo fare ricorrendo alla funzione sacerdotale nella Legge, e al potere di giurisdizione sovrana del sommo sacerdote, che Dio aveva stabilito in Gerusalemme. La risposta però è facile; anzi ve ne sono parecchie qualora non si accontentassero di una sola.
In primo luogo non è procedimento ragionevole, l'estendere a tutto il mondo ciò che è risultato utile per una nazione. Vi è anzi grande differenza fra il mondo intero e il popolo particolare. Per tema che i Giudei, interamente circondati da popolazioni idolatriche, fossero distratti da questa varietà di religioni Dio aveva posto la sede del suo culto al centro del mondo, e aveva stabilito quivi un prelato cui tutti fossero sottoposti per essere meglio uniti. La religione è ora sparsa in tutto il mondo; chi non vede dunque l'assurdità di assegnare ad un sol uomo il governo dell'oriente e dell'occidente? Sarebbe come voler pretendere che l'universo debba esser governato da un sindaco o da un siniscalco solo dato che ogni provincia ne ha uno.
C'è però un'altra ragione, per cui non è necessario dedurre, da quel fatto, la conclusione suddetta e seguirla. Tutti sanno che il sommo sacerdote sotto la Legge è stato figura di Gesù Cristo. Ora essendo stato trasferito il sacerdozio è d'uopo che sia trasferito anche questo diritto (Eb. 7.12).
A chi potrebbe esserlo? Non certo al Papa come egli spudoratamente richiede, interpretando questo testo in suo favore, ma a Gesù Cristo, il quale, esercita questo ufficio da solo, senza vicari o successori, e non ne trasferisce l'onore a nessuno. Questo sacerdozio infatti, figurato nella Legge, non consiste solo in predicazione e insegnamento; implica altresì la riconciliazione di Dio con gli uomini, riconciliazione che Gesù Cristo ha compiuto nella sua morte; e anche il ministero dell'intercessione con cui egli si presenta a Dio in nostro favore per darci accesso a lui.
3. Non devono dunque pretendere vincolarci con questo esempio, limitato nel tempo, facendone una legge perpetua.
Nel Nuovo Testamento non possono citare nulla a loro vantaggio se non le parole dette ad un uomo soltanto: "tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Tutto ciò che avrai legato in terra sarà legato in cielo, ciò che avrai sciolto sarà sciolto " (Mt. 16.18) , e ancora: "Pietro mi ami tu? Pasci le mie pecore" (Gv. 21.16).
Volendo però che queste prove risultino decisive devono dimostrare anzitutto che quando vien detto ad un uomo di pascere il gregge di Cristo gli viene conferita autorità su tutte le Chiese; e secondo, che legare e sciogliere significhi semplicemente governare su tutto il mondo. Il fatto è però che Pietro, avendo ricevuto questo incarico dal Signore, esorta, nello stesso modo, tutti gli altri preti ad assolverlo, a pascere cioè il gregge di Dio che è stato loro affidato (1 Pi. 5.2). È facile dedurre da questo che nell'ordinare a san Pietro di fungere da pastore delle sue pecore, Gesù Cristo non gli ha dato nulla di particolare riguardo ad altri, oppure che Pietro ha esteso a tutti gli altri il diritto che aveva ricevuto.

Per non fare lunghi discorsi udiamo dalla bocca stessa di Gesù Cristo la spiegazione che egli ci dà, in un altro testo, del significato di "legare "e "sciogliere ": cioè di rimettere e ritenere i peccati (Gv. 20.23).
Le modalità di questo legare e sciogliere si possono leggere in tutta la Scrittura, sono però chiaramente espresse da san Paolo quando dice che i ministri dell'evangelo hanno la missione di riconciliare gli uomini a Dio, e il potere per compiere un giudizio su tutti coloro che avranno rifiutato tale beneficio (2 Co. 5.18; 10.6).
4. Ho già detto in che modo distorcono il significato dei testi che fanno menzione di legare e sciogliere, e sarà necessario riprendere più ampiamente questo problema. Per ora è necessario esaminare le conseguenze che costoro traggono dalle parole dette da Gesù Cristo a Pietro.
Promette di affidargli le chiavi del regno dei cieli, e che tutto ciò che avrà legato in terra sarà legato nei cieli. Se possiamo trovare un accordo sul significato del termine "chiavi "e sulle modalità del "legare "tutto il dibattito sarà risolto. Il Papa abbandonerà infatti molto volentieri questa carica, che nostro Signore ha affidato ai suoi apostoli, in quanto comporta molti impegni e molti fastidi senza procurargli alcun vantaggio, e privandolo dei suoi piaceri. La similitudine delle chiavi si addice molto bene all'evangelo, in quanto è mediante l'insegnamento di esso che i cieli ci sono aperti. Ora nessuno risulta legato o sciolto davanti a Dio, se non per il fatto che gli uni sono riconciliati mediante la fede, gli altri doppiamente vincolati dalla loro incredulità. Se il Papa si accontentasse di mantenere questo diritto penso che non susciterebbe nessuna opposizione.
Dato però che una successione di questo genere, piena di fatiche e priva di guadagni non gli garba, eccoci costretti a contestargli anzitutto il significato di quella promessa di Gesù a Pietro. La situazione dimostra che egli ha voluto magnificare l'apostolato in cui la dignità non si può scindere dall'incarico. Se viene accolta l'interpretazione che abbiamo dato, e non la si può respingere senza spudoratezza, non viene conferito a san Pietro, sulla base di questo testo, nulla che non sia comune a tutti i dodici; in caso contrario non si recherebbe solo offesa alla loro persona ma la dignità del loro insegnamento sarebbe sminuita. I Romanisti protestano con violenza; che cosa ricavano però dal loro accanirsi contro tale rupe? Non potranno far sì che tutti gli apostoli, ricevendo il mistero della predicazione, non siano stati muniti altresì della potenza di legare e sciogliere.
Gesù Cristo, dicono, promettendo le chiavi a san Pietro lo ha costituito vescovo della Chiesa tutta. Rispondo che quanto risulta promesso a lui solo, in quel testo, viene affidato a tutti gli altri poco dopo, anzi è dato loro in mano (Mt. 18.18; Gv. 20.23). Quando viene affidato a tutti lo stesso diritto che viene affidato a uno in che cosa quest'ultimo può considerarsi superiore agli altri compagni?
La preminenza, dicono, consiste nel fatto che egli riceve a parte e insieme agli altri ciò che agli altri è affidato soltanto in comune. Rispondo, con san Cipriano e sant'Agostino, che Gesù Cristo non ha agito in questo modo sulla base di una preferenza nei riguardi degli altri ma avendo in vista l'unità della Chiesa. Queste sono le parole di san Cipriano: "Nostro Signore, nella persona di un uomo, ha dato le chiavi a tutti per mettere in evidenza l'unità di tutti. San Pietro era esattamente ciò che gli altri erano, compagni in onore e potenza eguali, ma Gesù Cristo Comincia con un uomo per mostrare che la Chiesa è una ". Ecco quanto dice sant'Agostino: "se la figura della Chiesa non fosse stata in san Pietro, il Signore non gli avrebbe detto: "ti darò le chiavi ". Se questo è detto soltanto a Pietro la Chiesa non ha il potere delle chiavi, se la Chiesa ha questo potere essa era già figurata nella persona di Pietro ". E ancora in un altro testo: "mentre la domanda era stata rivolta a tutti, fu Pietro soltanto che rispose: "Tu sei il Cristo ", e a lui fu detto: "ti darò le chiavi ", quasi il potere di legare e sciogliere fosse stato conferito a lui solo; ma come aveva risposto per tutti così riceve con tutti le chiavi come assomando in se una personalità unitaria. Egli è dunque nominato solo al posto di tutti in quanto esiste fra tutti unità ".
5. Quanto vien detto in quel testo, affermano, ha significato più ampio; non è infatti mai stato detto ad altri che su questa pietra la Chiesa sarà edificata. È da dimostrare però che in questo caso Gesù abbia detto riguardo a Pietro cosa diversa da quanto lo stesso Pietro, e san Paolo, affermano dei credenti tutti. Poiché san Paolo dice che Gesù Cristo è la pietra angolare su cui poggia tutto l'edificio, su cui sono edificati tutti coloro che crescono per essere un santo tempio al Signore (Ef. 2.20). E san Pietro ci ordina di essere pietre vive avendo qual fondamento Gesù Cristo, come pietra scelta e preziosa, per essere uniti e congiunti a Dio e fra di noi (1 Pi. 2.5).
San Pietro, dicono, è stato questo più di tutti gli altri in quanto egli ha in particolare il nome. Riconosco certo volentieri a san Pietro l'onore, di essere situato nell'edificio della Chiesa fra i primi, anzi se fa loro piacere, al primo posto fra tutti i credenti. Ma non permetterò loro di dedurre da questo che egli abbia primato sugli altri. Che modo di ragionare sarebbe infatti questo: san Pietro precede gli altri in zelo, dottrina, perseveranza, dunque ha preminenza su tutti? Si potrebbe, con motivazioni ancora più fondate dedurre che Andrea precede Pietro nell'ordine, in quanto lo ha preceduto nel tempo avendolo convinto e condotto a Cristo (Gv. 1.40-42). Lasciamo stare però questi discorsi. Ammetto che san Pietro abbia precedenza sugli altri; c'è però differenza fra una precedenza onorifica e l'aver autorità. Gli apostoli hanno quasi sempre riconosciuto a Pietro il diritto di parlare per primo nell'assemblea, impostando i problemi con l'ammonire e l'esortare i compagni; di potestà però non se ne parla.
6. Non è giunto ancora il momento di affrontare questo problema, perciò mi limiterò a mostrare che è, da parte loro, sciocca pretesa il voler stabilire il dominio di un uomo su tutta la Chiesa fondandosi sul solo nome di "Pietro ". Non sono infatti neppure degne di menzione le ridicole e sciocche tesi con cui hanno voluto ingannare sin dal principio la gente: essere cioè la Chiesa fondata su san Pietro in quanto è detto: "su questa pietra edificherò la mia Chiesa ". A loro giustificazione sta il fatto che alcuni dei Padri hanno dato questa interpretazione; ma a che serve rivendicare l'autorità degli uomini contro Dio quando tutta la Scrittura dice il contrario?
Perché anzi discutere riguardo al significato di queste parole, quasi fosse oscuro o dubbio visto che non potrebbe essere più chiaro e definito? Pietro aveva confessato, a nome suo proprio e dei fratelli, che Cristo era il figlio di Dio (Mt. 16.16). Su tale pietra Cristo edifica la sua Chiesa, in quanto questo è il fondamento unico, come dice san Paolo, e non è lecito porne un altro (1 Co. 3.2). Non respingo affatto l'autorità dei Padri su questo punto, e non mancano le loro testimonianze qualora volessi citarle a conferma della mia tesi. Non voglio però importunare i lettori, dilungandomi in lunghi discorsi su una questione così evidente; considerando anche il fatto che altri hanno trattato ampiamente e con molta cura questa materia.
7. Nessuno è in grado di risolvere questo problema meglio della Scrittura, se esaminiamo tutti i testi in cui vengono illustrate le mansioni e l'autorità di Pietro nel gruppo degli apostoli, il suo comportamento e la sua posizione. Se li si esamina attentamente, si riscontrerà soltanto che Pietro è stato uno dei dodici, simile agli altri, compagno e non padrone.
Egli certo propone la linea di azione nella comunità e ammonisce gli altri, ma si pone, d'altra parte, in ascolto, e non permette soltanto agli altri di esprimere pareri ma di stabilire e decretare ciò che sembra loro opportuno. Quando hanno preso una decisione egli la segue e la applica (At. 15.1).
Quando scrive ai pastori, non dà ordini come un superiore, valendosi dell'autorità, ma li considera suoi compagni e li esorta in modo amichevole, come si suol fare da pari a pari (1 Pi. 5.1).
Quando viene accusato di aver avuto contatto con i pagani, quantunque fosse a torto (At. 11.2) , egli giustifica.
Quando gli si ordina di recarsi in Samaria con Giovanni non oppone un rifiuto (At. 8.14). Inviandolo in missione gli apostoli dimostrano di non considerarlo superiore a loro. Quando egli obbedisce e accoglie l'incarico ricevuto, dimostra che esiste fra loro comunione e non dominio. Quand'anche non possedessimo tutte queste citazioni la difficoltà verrebbe eliminata dalla sola epistola ai Galati, dove san Paolo dimostra, in due interi capitoli, che è uguale a san Pietro nella carica dell'apostolato. Per dimostrare questo egli ricorda che non si è recato da lui per far professione di sottomissione, ma per dimostrare a tutti l'unità della dottrina esistente fra loro. Anzi san Pietro non gli ha richiesto questo ma gli ha dato la mano in segno di collaborazione per lavorare insieme nella vigna del Signore. Anzi Dio gli aveva manifestato, nella sua opera fra i pagani, tanta grazia, quanta ne aveva manifestata a Pietro nella sua opera fra i Giudei. Infine quando Pietro non si era comportato rettamente, egli lo aveva ammonito e quello aveva accettato il suo rimprovero (Ga 1.18; 2.8). Tutto questo dimostra che fra san Pietro e san Paolo esisteva eguaglianza, oppure che san Pietro non aveva più autorità sugli altri di quanto ne avessero gli altri su di lui. In realtà l'intenzione di san Paolo è espressamente quella di mostrare che nel suo apostolato non doveva essere ritenuto inferiore a Pietro e a Giovanni in quanto si tratta di uomini che sono stati suoi compagni e non suoi superiori.
8. Quand'anche concedessi riguardo a Pietro ciò che domandano, che cioè sia stato principe degli apostoli e superiore agli altri in dignità, non c'è però motivo per ricavare da un caso particolare una norma generale, e fare deduzioni da ciò che è accaduto una volta, tanto più che si tratta di situazioni diverse.
Se v'è stata fra gli apostoli una figura principale, questo si deve attribuire al fatto che erano pochi. Se uno ha tenuto la presidenza su dodici, ne deriva forse che uno debba presiedere su centomila? Non stupisce che vi sia stata una persona a capo dell'organizzazione del gruppo dei dodici. La natura e la prassi degli uomini richiedono che ogni comunità, quand'anche i membri siano pari in autorità, vi sia una persona che ha carica di guida e a cui tutti obbediscono. Non esiste consiglio, parlamento, assemblea qualsiasi che non abbia un suo presidente, né c'è esercito senza capitano. Non vedo nessun inconveniente ad ammettere che gli apostoli hanno conferito a san Pietro questo primato. Ciò che si è verificato però nell'ambito dei pochi non si deve trasferire letteralmente a tutto il mondo, a reggere il quale una sola persona non può bastare da sola.
L'ordine di natura, dicono, insegna che deve esserci un capo su ogni corpo. E citano a sostegno delle loro tesi l'esempio delle gru e delle api che eleggono sempre un solo re o un solo capo e non parecchi. Accetto volentieri questi esempi; mi chiedo però se tutte le api del mondo si radunano in un posto per eleggere un re. Ogni re si accontenta della sua arnia. Parimenti ogni stormo di gru ha il suo conduttore. Che conclusioni si possono dedurre da questo se non che ogni Chiesa deve avere il suo vescovo?
Citano ancora l'esempio delle monarchie terrestri e accumulano citazioni di poeti e di scrittori che lodano questa o quella monarchia, questo o quel sistema. La risposta è facile. Le monarchie non vengono lodate, anche da parte di scrittori pagani, come se un sol uomo dovesse governare il mondo intero, essi intendono solo alludere al fatto che un principe non può accettare nei suoi domini un uomo suo pari in autorità.
9. Pur ammettendo come una cosa buona e utile, secondo le loro tesi, che il mondo intero sia ridotto ad una monarchia, il che è invece errato, non concede loro però che questo debba valere per il governo della Chiesa. Essa infatti ha Gesù Cristo quale unico capo, sotto la cui autorità tutti siamo uniti secondo l'ordine e la forma di governo che lui stesso ha istituito. Coloro pertanto che vogliono dare preminenza ad un sol uomo, sulla Chiesa tutta, con il pretesto che essa non può fare a meno di un capo, recano somma ingiuria a Gesù Cristo, che ne è il capo, cui, come dice san Paolo, ogni membro deve essere sottomesso affinché tutti insieme, secondo la misura dei propri doni, siamo uniti per crescere in lui (Ef. 4.15). Vediamo che l'Apostolo considera, senza eccezione, tutti gli uomini della terra partecipi del corpo di Cristo, riservando a lui solo l'onore e il titolo di capo. Egli affida dunque ad ogni membro limiti stabiliti e compiti precisi affinché, sia la perfezione della grazia, che la sovrana potenza di governo, risiedano in Gesù Cristo soltanto. Conosco il cavillo con cui rispondono a questa obiezione: Gesù Cristo è nominato unico capo in senso assoluto, in quanto lui solo può governare in nome proprio e di sua autorità; ma questo non esclude l'esistenza di un capo a lui subordinato, nel campo del ministero, che sia quasi suo gerente. Nessun frutto può derivare da questa argomentazione se non si sarà dimostrato, anzitutto, che questo ministero è stato ordinato da Cristo. Poiché l'Apostolo insegna che il ministero è sparso in tutte le membra, ma l'autorità procede dal solo capo celeste (Ef. 1.22; 4.15; 5.23). Oppure, se vogliono che mi esprima in modo più chiaro, dato che la Scrittura dichiara che Gesù Cristo è capo e attribuisce a lui solo quell'onore, non lo si deve trasferire ad un altro se Gesù Cristo non lo ha istituito suo vicario.
10. E non solo questo non si legge in nessun testo, ma è chiaramente refutabile sulla base di molte citazioni. San Paolo ci ha fornito alcune descrizioni della Chiesa e non ha mai fatto menzione dell'esistenza di un unico capo in terra; si potrebbe anzi, dalla sua descrizione, dedurre che questo non si addice all'istituzione di Cristo il quale, salendo al cielo, ci ha sottratto la sua presenza visibile ma tuttavia è salito per empire ogni cosa (Ef. 4.10).
La Chiesa perciò lo ha costantemente presente e sempre lo avrà. Quando san Paolo vuole illustrare il mezzo mediante cui godiamo della presenza di Cristo ci rinvia ai ministeri di cui egli si serve: "Il Signore Gesù ", dice "è in noi tutti, secondo la misura della grazia che ha dato ad ogni membro. Perciò egli ha costituito gli uni apostoli, gli altri profeti, gli altri evangelisti, gli altri pastori, gli altri dottori " (Ef. 4.7- 11). Perché non dire che egli ne ha istituito uno sugli altri tutti per fungere da suo luogotenente? Il problema che stava infatti trattando richiedeva questa precisazione, e non la doveva omettere se corrispondeva alla realtà. Gesù Cristo, egli dice, ci assiste. In che modo? Mediante il ministero degli uomini cui ha affidato il governo della sua Chiesa. Perché non dice invece: mediante la funzione magisteriale del capo che ha stabilito in vece sua? Fa bensì menzione della unità ma ravvisandola in Dio nella fede in Gesù Cristo. Riguardo agli uomini non concede nulla se non il ministero comune a tutti e quello particolare ad ognuno. Nel raccomandarci l'unità, dopo aver detto che siamo un corpo e uno spirito, avendo la medesima speranza della vocazione comune, un Dio una fede e un battesimo (Ef. 4.4-5) perché non aggiungere subito che abbiamo un sommo prelato per mantenere la Chiesa unita? Se tale fosse stata la verità, non avrebbe potuto dir nulla di più pertinente. Si mediti dunque attentamente questo testo. Non v'è dubbio infatti che l'Apostolo abbia avuto l'intenzione di presentarci il governo spirituale della Chiesa, che è stato detto poi dai successori: gerarchia. Egli non fa menzione di monarchia o del principato di uno solo fra i ministeri, anzi dimostra che tale principio non c'è. È altresì indubbio che egli abbia voluto in questo testo esprimere la forma di unità mediante cui i credenti debbano essere uniti a Gesù Cristo loro capo. E non solo non fa menzione di un capo fra i ministeri, ma attribuisce ad ogni membro la sua particolare attività secondo la misura della grazia data ad ognuno.
Voler stabilire un parallelismo tra la gerarchia celeste e quella terrestre è sciocchezza. Riguardo alla prima infatti non ci è necessario sapere più di quanto ce ne dica la Scrittura. Per stabilire l'ordine che dobbiamo tenere in terra non c'è altra norma da seguire che quella dataci dal Signore stesso.
2. Quand'anche si concedesse loro questo secondo punto, che però una persona di buon senso non concederà mai, cioè il primato della Chiesa esser stato dato a san Pietro a condizione che fosse perpetuo e passasse di mano in mano per via di successione, da che cosa si deduce che la Sede romana sia stata magnificata al punto che il suo vescovo debba governare il mondo intero? Con che diritto, e a che titolo vincolano ad un luogo una dignità che fu conferita a san Pietro, senza menzione alcuna di luogo.
Pietro, dicono, è vissuto a Roma e quivi è morto. E Gesù Cristo? Non ha forse esercitato la carica di vescovo a Gerusalemme durante il tempo della sua vita? Non ha forse adempiuto con la sua morte ciò che era richiesto dal sommo sacerdozio? Egli principe dei pastori e sommo vescovo, capo della Chiesa non ha potuto acquisire l'onore del primato ad una località. Come potrebbe farlo Pietro che è di molto inferiore? Non è forse follia più che infantile il parlare così? Gesù Cristo ha dato a Pietro l'onore del primato, Pietro ebbe a Roma la sua sede ne consegue che ha quivi posta la sede del suo primato. Con ragionamenti di questo genere il popolo d'Israele avrebbe dovuto anticamente collocare la sede del primato nel deserto in quanto Mosè, sommo dottore e principe dei profeti aveva quivi esercitato il suo ufficio e quivi era morto (De 34.5).
12. Prendiamo in esame il bel ragionamento che costoro fanno: san Pietro, dicono, ebbe fra gli apostoli una posizione di primato. La Chiesa dunque in cui egli risiede, deve godere di quello stesso privilegio. Si pone però la domanda: quale è stata la prima Chiesa di cui egli e stato vescovo? Antiochia, rispondo. Ne deduco perciò che il primato spetta di diritto ad Antiochia.
Ammettono che essa sia stata la prima in ordine di tempo, ma affermano, che Pietro, partendo di là ha trasferito l'onore del primato a Roma. Esiste infatti una lettera di papa Marcello scritta ai preti di Antiochia dove è detto: la sede di Pietro è stata dapprima nella vostra città; ma in seguito è stata, per ordine di Dio, trasferita da noi. Così la Chiesa di Antiochia che al principio fu la prima ha dato luogo alla Sede romana . Mi domando però in base a quali rivelazioni quello scioccone di papa sapeva che Dio aveva deciso questo?
Se si tratta di risolvere questa questione sulla base del diritto essi devono definire se il privilegio dato a Pietro sia di natura personale, oggettiva o mista. Occorre, secondo i giuristi, scegliere una delle tre soluzioni; se dicono che si tratta di un privilegio personale la sede non è rilevante. Se è di natura oggettiva quando è stato conferito ad una sede non può essere eliminato per decesso o per partenza della persona. Resta l'ipotesi di un privilegio misto. In tal caso non si può prendere in considerazione soltanto la sede ma si deve considerare insieme ad essa la persona. Scelgano la soluzione che preferiscono, ne dedurrò subito, e dimostrerò facilmente che Roma non può in alcun modo rivendicare il primato.
13. Concediamo però ancora questo punto, accettiamo, cioè il caso che il primato sia stato trasferito da Antiochia a Roma. Perché Antiochia non ha almeno mantenuto il secondo posto? Se Roma è la prima sede, in quanto Pietro è stato vescovo sino alla sua morte, quale deve essere la seconda se non quella in cui egli ha avuto dapprima la sua sede? Come mai è accaduto invece che Alessandria abbia preceduto Antiochia? È opportuno che la Chiesa di un semplice discepolo risulti superiore alla sede di san Pietro?
Se necessariamente l'onore dato ad ogni Chiesa deve essere vincolato alla dignità del suo fondatore che diremo delle altre Chiese? San Paolo menziona tre apostoli che si reputavano essere le colonne: Giacomo, Pietro e Giovanni (Ga 2.9). Se si attribuisce la preminenza alla Sede romana, in onore di san Pietro, Efeso e Gerusalemme, di cui Giovanni e Giacomo sono stati vescovi, non meriterebbero di avere il terzo e il quarto posto? Ora fra le sedi patriarcali Gerusalemme risulta essere l'ultima. Efeso non ha avuto neppure un posticino, e le altre Chiese, tanto quelle fondate da san Paolo che quelle presiedute da altri apostoli, risultano essere molto indietro e non sono state tenute in alcun conto. La sede di san Marco, semplice discepolo, ha ricevuto più onore di tutte.
Devono riconoscere che quest'ordine di dignità è sbagliato ovvero ammettere che non è norma rigorosa che sia dovuto ad ogni Chiesa lo stesso grado di onore che ebbe il suo fondatore.
14. Il fatto che Pietro sia stato vescovo di Roma secondo le loro storie, mi pare lungi dall'essere provato. È indubbio che la testimonianza di Eusebio, secondo cui egli vi avrebbe soggiornato 25anni, si può senza difficoltà smentire. Risulta infatti dal primo e dal secondo capitolo della lettera di san Paolo ai Galati che Pietro soggiornò a Gerusalemme dopo la morte di Gesù Cristo circa vent'anni (Ga 1.18; 2.1) e di qui si trasferì ad Antiochia. Dimorò quivi durante un certo periodo di durata però incerta; Gregorio parla di sette anni, Eusebio di venticinque. Dalla morte di Gesù Cristo alla fine del regno di Nerone che fece uccidere san Pietro, trascorrono soltanto trentasette anni. Nostro Signore infatti patì sotto l'imperatore Tiberio, l'anno diciottesimo del regno di lui. Se si sottraggono i venti che san Pietro trascorse a Gerusalemme, secondo la testimonianza di san Paolo, rimangono al massimo diciassette anni da ripartirsi fra questi due vescovati. Se egli soggiornò a lungo ad Antiochia non può aver vissuto a Roma che poco tempo.
Questo fatto si può però dedurre in modo ancor più semplice: san Paolo scrisse la sua epistola ai Romani mentre era in viaggio verso Gerusalemme (Ro 15.25) , dove venne arrestato per poi essere condotto a Roma. Verosimilmente quello scritto fu dunque redatto quattro anni prima della sua venuta a Roma. Ora non fa menzione alcuna di san Pietro, che non avrebbe invece dovuto passare sotto silenzio se fosse stato vescovo della città. Alla fine della lettera, nella lista di coloro che egli saluta, menziona un gran numero di credenti quasi volendo raccogliere in una lista tutte le sue conoscenze; di san Pietro nessun cenno. Non è perciò necessario ricorrere a lunghe discussioni e a grandi sottigliezze per convincere persone di buon senso. Lo dimostra la realtà e lo attesta il tenore dello scritto: san Pietro non poteva essere dimenticato qualora fosse stato residente in quella sede.
15. San Paolo venne in seguito trasferito prigioniero a Roma (At. 28.16); san Luca narra che venne accolto dai fratelli, ma di Pietro nessuna menzione. Dimorando quivi egli scrive a parecchie Chiese. In ogni lettera mette i saluti dei conoscenti che erano con lui: non una parola però da cui si possa dedurre che san Pietro risiedesse a Roma. È pensabile, vi chiedo, che avrebbe mantenuto un silenzio così assoluto se egli vi fosse stato?
Ai Filippesi, anzi, dopo aver detto che nessuno si è impegnato nell'opera del Signore come Timoteo, egli si lamenta che ognuno ricerchi il proprio profitto (Fl. 2.20-21). E scrivendo a quello stesso Timoteo, si duole, in modo ancor più radicale, del fatto che nel corso del primo processo, nessuno lo avesse assistito, ma, al contrario, tutti lo avessero abbandonato (2Ti 4.16). Dove si trovava allora san Pietro? Se risiedeva a Roma Paolo l'accusa di un grave peccato: aver abbandonato l'Evangelo; egli parla infatti dei credenti aggiungendo: questo non sia loro imputato. Quando e per quanto tempo san Pietro ha dunque retto la Chiesa di Roma?
È opinione comune, dirà qualcuno, che egli vi dimorò sino alla morte. Risponderò che non esiste un accordo fra gli antichi autori riguardo al suo successore, gli uni parlano di Lino gli altri di Clemente. Anzi, si narrano molte sciocchezze riguardo alla sua disputa con Simon Mago. Anche sant'Agostino, parlando di superstizioni, non nasconde che la prassi della Chiesa di Roma di non digiunare il giorno in cui si supponeva Pietro avesse vinto la causa su Simon Mago, era sorta in base a voci prive di fondamento e ad una opinione concepita senza riflessione. Le cose riguardanti quel periodo risultano infine così confuse, a causa delle diversità di opinioni, che non si deve accogliere acriticamente tutto ciò che è scritto.
Tuttavia dato l'accordo delle fonti riguardo alla morte di lui a Roma, non intendo oppormi. Nessuno mi convincerà però che egli sia stato vescovo, anzi vi sia stato durante un lungo periodo e non me ne preoccupo affatto in quanto Paolo afferma che l'apostolato di san Pietro concerneva in modo particolare i Giudei, mentre il suo si rivolgeva a noi. Se vogliamo infatti considerare valido il patto stipulato fra loro due, anzi attenerci all'ordine dello Spirito Santo, dobbiamo avere, per parte nostra, maggior riguardo all'apostolato di Paolo che a quello di Pietro. Poiché lo Spirito Santo ha diviso le loro mansioni destinando Pietro ai Giudei e Paolo a noi.
Cerchino perciò i romanisti le fonti del loro primato altrove che nella parola di Dio, visto che quivi non se ne trova il minimo fondamento.
16. Passiamo ora ad esaminare la Chiesa antica affinché risulti chiaro che la pretesa dei nostri avversari, di averla dalla propria parte, non è meno priva di fondamento e assurda della pretesa di prevalersi della Sacra Scrittura.
Quando dunque citano quell'articolo della loro fede, secondo cui la Chiesa non può essere mantenuta in unità senza avere il capo assoluto in terra, cui tutti gli altri membri siano sottomessi, e secondo cui nostro Signore ha dato a san Pietro il primato per lui e i suoi successori affinché duri perpetuamente, pretendono che questo sia stato in uso sin dal principio.
Dato che accumulano di qua e di là molte testimonianze manipolandone l'interpretazione a loro vantaggio, dichiaro formalmente che non intendo negare che gli antichi dottori abbiano tributato grande onore alla Chiesa romana e ne parlino con rispetto. Penso però che questo si sia verificato per tre motivi: l'opinione diffusa che san Pietro ne fosse il fondatore aveva già di per se potere per conferire credito e autorità a Roma. Le Chiese d'Occidente perciò l'hanno designata Cl. Titolo onorifico di Sede apostolica. In secondo luogo trattavasi della capitale dell'impero e, verosimilmente, si trovavano quivi personalità più eccellenti, sia dal punto di vista della dottrina che della sapienza, e più sperimentate che in altri luoghi, si ebbe perciò riguardo, e a ragione, di evitare che fosse disprezzato da un lato la nobiltà della città e dall'altro i doni che Dio aveva posto quivi.
In terzo luogo: mentre le Chiese d'Oriente e di Grecia e anche d'Africa furono travagliate da non poche crisi, la Chiesa romana è stata in quei tempi molto più tranquilla e meno soggetta a tumulti; accadde perciò che buoni vescovi e di santa dottrina, espulsi dalle loro Chiese vi approdassero come in un rifugio e In un porto. Le popolazioni d'Occidente, infatti, non possono vantarsi di possedere l'intelligenza acuta e pronta degli asiatici e degli africani, in compenso però sono meno instabili e bramose di novità. Ha dunque grandemente accresciuto l'autorità della Chiesa di Roma il fatto di non essere stata turbata in quei periodi in cui le Chiese si combattevano l'un l'altra e di mantenersi più stabile nella dottrina ricevuta anticamente come sarà più chiaramente detto in seguito.
Questi sono i tre motivi per cui, penso, la Sede romana è stata dagli antichi maggiormente considerata e onorata.
17. Quando però i nostri avversari, volendosi prevalere di questo fatto, le conferiscono primato e potestà assoluta sulle altre Chiese, commettono, come ho detto, un grossolano errore. E per rendere questo più evidente illustrerò, brevemente, anzitutto, come gli antichi abbiano intesa questa unità su cui costoro tanto insistono.
San Girolamo, scrivendo a Nepoziano, dopo aver fatto menzione di molti elementi di unità, esamina infine la gerarchia ecclesiastica: "c'è "dice "in ogni Chiesa un vescovo, un arciprete, un arcidiacono e tutto l'ordine della Chiesa consiste in queste autorità ". Notiamo che a parlare è un prete romano, e che egli intende sottolineare l'unità della Chiesa. Perché non fa egli menzione del fatto che tutte le Chiese sono unite insieme, mediante un vincolo, per mezzo di un capo? Nessun argomento, più di questo, sarebbe stato atto a sostenere la sua tesi, e non si può ritenere che egli lo abbia tralasciato per dimenticanza. Non avrebbe infatti mancato di valersene se fosse risultato possibile, n quel contesto.
Il dunque chiaro che egli si rendeva conto del fatto che la reale forma dell'unità era quella descritta da san Cipriano, quando egli diceva: "non esiste che un solo episcopato, di cui ogni vescovo è interamente partecipe; non c'è che una Chiesa sparsa in lungo e in largo come molti raggi del sole ma la luce è una sola; come un albero ha molti rami, ma non ha che un tronco fondato sulle sue radici; come da un'unica fonte derivano molti ruscelli che non impediscono però che nella fonte permanga l'unità. Si separino i raggi dal corpo del sole, l'unità che è in esso non verrà per questo distrutta. Si tagli un ramo dall'albero egli seccherà. Così la Chiesa è illuminata dalla luce di Dio e sparsa nel mondo non di meno c'è una sola luce che si spande ovunque e l'unità non viene rotta ". Dopo aver detto questo egli conclude che tutte le eresie e gli scismi derivano dal fatto che non ci si volge alla fonte della verità, non si cerca il Capo non si mantiene la dottrina del Maestro celeste.
Vediamo che egli conferisce a Gesù Cristo solo il vescovato universale che include tutta la Chiesa; egli afferma che tutti coloro che sono vescovi sotto quel capo, ne detengono una parte. Dove sarà dunque il primato della Sede romana se il vescovato risiede interamente in Cristo soltanto e se ognuno ne ha una parte? Ho citato questo testo per dimostrare ai lettori, quasi per inciso, che l'affermazione dei romanisti, quel loro articolo di fede, secondo cui il governo gerarchico della Chiesa richiede l'esistenza di un capo in terra, è sconosciuta agli antichi.
CAPITOLO 7
ORIGINE E ACCRESCIMENTO DEL PAPATO FINO AL PREDOMINIO ATTUALE: DA CUI È DERIVATO L'ANNULLAMENTO DI OGNI LIBERTÀ E LA CANCELLAZIONE DI OGNI GIUSTIZIA
1. Il primo avvio e la più antica giustificazione del primato della Sede romana è rappresentato dal decreto emanato al concilio di Nicea in cui vescovo di Roma è detto primo fra i patriarchi e gli è affidata la sovrintendenza delle Chiese vicine. Questo decreto spartisce le province fra lui e gli altri patriarchi in modo da assegnare ad ognuno il proprio territorio. Non lo colloca però a capo di tutti i patriarchi ma lo considera uno dei principali. Giulio, allora vescovo di Roma, aveva inviato al Concilio due sostituti per rappresentarlo; questi furono fatti sedere al quarto rango. Se Giulio fosse stato riconosciuto qual capo della Chiesa, coloro che rappresentavano la sua persona sarebbero stati declassati al quarto rango? È, questa una domanda. Avrebbe potuto Atanasio presiedere il concilio ecumenico in cui l'ordine delle gerarchie deve essere così rigorosamente rispettato?
Al concilio di Efeso Celestino, allora vescovo di Roma, assunse un atteggiamento ambiguo per rivendicare la dignità della sua sede; egli infatti manda da un lato i suoi delegati per assistervi in sua vece e nell'altro chiede al vescovo di Alessandria, Cirillo, che doveva presiedere, di rappresentarlo. Che significato aveva una tale delega se non fare pervenire in qualche modo il suo nome al primo posto? I suoi delegati infatti si trovavano in posizioni inferiori, si richiedeva il loro parere come a tutti gli altri, votavano secondo il loro ordine, il patriarca di Alessandria però era investito di un duplice incarico.
Che diremo del secondo concilio di Efeso? Quantunque Leone vescovo di Roma vi avesse inviato i suoi ambasciatori fu tuttavia Dioscoro, patriarca di Alessandria a presiedere senza contestazioni. Replicheranno che quello non fu un concilio legittimo visto che Flaviano, vescovo di Costantinopoli, vi fu condannato e venne approvata l'eresia di Eutiche; non intendo però riferirmi qui alle sue decisioni. Sta di fatto che il Concilio era quivi raccolto e i delegati del Papa di Roma erano seduti al loro posto al pari degli altri, come in ogni santo e ben organizzato concilio; e non rivendicano il primo posto ma lo cedono ad altri, cosa che non avrebbero potuto fare se fosse stato di loro spettanza. I vescovi di Roma, infatti, non hanno mai avuto scrupoli a provocare gravi polemiche per difendere la loro dignità, e non hanno esitato a mettere sossopra le Chiese e a dividerli per questa ragione. Ma Leone, accorgendosi che avrebbe agito con arroganza pretendendo per i suoi ambasciatori il primo posto, lasciò correre.
2. Seguì il concilio di Calcedonia presieduto, per concessione o ordine imperiale, dai delegati della Chiesa di Roma. Leone stesso però riconosce che questo si verificò per eccezionale privilegio . Nel richiederlo infatti all'imperatore Marciano e all'imperatrice, non pretende che la cosa gli sia dovuta ma si vale della scusa che i vescovi d'Oriente, nel presiedere il concilio di Efeso, si erano comportati male e avevano abusato della loro autorità. Rivelandosi così necessario la presidenza di un nuovo responsabile e non essendo verosimilmente idonei coloro che in precedenza avevano agito sconsideratamente, Leone chiede sia trasferita a lui questa carica motivando la sua richiesta con l'incompetenza degli altri.
È chiaro che non si può considerare normale e perpetuo ciò che si richiede come speciale privilegio. Quando si ricorre all'unica motivazione che è necessario avere una buona presidenza in quanto i precedenti hanno agito male, risulta chiaramente che questo provvedimento non è stato attuato in precedenza né se ne possono trarre conclusioni per l'avvenire, ma si tratta soltanto di un provvedimento motivato dal pericolo e dalle necessità attuali. Perciò il vescovo di Roma ha occupato il primo posto al concilio di Calcedonia; non perché questo fosse dovuto alla sua Chiesa, ma in quanto il Concilio risultava sprovvisto di una saggia ed adeguata presidenza poiché coloro, a cui spettava questo diritto, ne erano stati esclusi a motivo delle loro intemperanze e del loro cattivo comportamento.
Quanto ho detto è provato dall'atteggiamento del successore di Leone. Convocato al terzo concilio di Costantinopoli, parecchio tempo dopo, non polemizzò per ottenere il primo posto, ma accettò senza difficoltà che presiedesse Menas patriarca del luogo. Similmente la presidenza del concilio di Cartagine, cui era presente anche sant'Agostino, fu affidata ad Aurelio, vescovo di quel luogo e non ai delegati della Sede romana, quantunque fossero espressamente venuti per riaffermare l'autorità del loro vescovo. C'è di più: si tenne in Italia un concilio ecumenico cui non partecipò il vescovo di Roma; si tratta del concilio di Aquilea, presieduto da sant'Ambrogio in virtù della stima di cui godeva presso l'Imperatore . Nessuna menzione viene fatta in questa circostanza del vescovo di Roma. Constatiamo dunque che in virtù dell'autorità di sant'Ambrogio Milano fu anteposta alla Sede romana.
3. Riguardo al primato e altri titoli orgogliosi di cui il Papa si vanta senza fine e senza misura, è facile giudicare quando, e in che modo siano stati introdotti.
San Cipriano, vescovo di Cartagine, menziona spesso Cornelio vescovo di Roma; non ne parla però altrimenti che come di un fratello, compagno, vescovo come lui. Scrivendo a Stefano, successore di Cornelio, non solo lo fa uguale a se stesso e agli altri vescovi, ma lo tratta molto severamente chiamandolo arrogante e ignorante. È noto ciò che le Chiese africane unanimemente decretarono dopo la morte di Cipriano. Al concilio di Cartagine fu deciso che nessuno potesse chiamarsi principe dei sacerdoti o primo vescovo ma soltanto vescovo della prima sede .
A chi esamini le storie antiche risulterà chiaro che il vescovo di Roma si accontentava del nome comune di fratello. Fintantoché la Chiesa si mantenne nella sua condizione di autenticità e di purezza, quei titoli di orgoglio, usurpati successivamente dalla Sede romana per accrescere il suo prestigio, furono del tutto sconosciuti. Non si conosceva l'esistenza di un sommo pontefice e di un capo unico di tutta la Chiesa. Se il vescovo di Roma avesse avuto l'ardire d'innalzarsi sino a quel punto, si sarebbero trovati uomini di buon senso per deplorare immediatamente la sua follia e la sua presunzione.
San Girolamo, come prete romano, non è stato avaro nel magnificare la dignità della sua Chiesa, nella misura riconosciuta lecita dalle condizioni e dalla verità dei suoi tempi, constatiamo tuttavia che egli la situa al piano delle altre. "Quando si tratta di un'autorità "dice "il mondo è più grande di una città. Perché mi vieni a citare gli usi di una sola città? Perché sottoporre l'ordine della Chiesa a poche persone causando l'insorgere di presunzioni? Ovunque c'è un vescovo, si tratti di Roma o di Gubbio o di Costantinopoli o di Reggio, egli è rivestito della stessa dignità e dello stesso sacerdozio. La potenza delle ricchezze o la debolezza della povertà non fanno un vescovo superiore o inferiore ".
4. La questione del titolo di vescovo universale fu sollevata, per la prima volta, ai tempi di san Gregorio, a motivo dell'ambizione dell'arcivescovo di Costantinopoli chiamato Giovanni. Costui pretendeva farsi vescovo universale, cosa che nessuno aveva sino allora osato. San Gregorio, discutendo il problema, non dice affatto che quello gli abbia sottratto un titolo di sua competenza, ma, al contrario, dichiara che si tratta di un titolo profano anzi sacrilego, una premessa per l'avvento dell'anticristo: "Se colui che è detto universale dovesse cadere "egli dice "la Chiesa tutta andrebbe in rovina ". E altrove: "È cosa deplorevole lasciare che venga detto vescovo unico chi è nostro fratello e nostro compagno, con conseguente disprezzo degli altri. Che possiamo congetturare da questo suo orgoglio se non che il tempo dell'anticristo è vicino? Infatti egli segue l'esempio di colui che, disprezzando la compagnia degli angeli, volle salire più in alto per essere unico sovrano ".
In un altro testo, scrivendo a Eulogio, vescovo di Alessandria, e ad Atanasio, vescovo di Antiochia: "Nessuno dei miei predecessori "dice "ha mai voluto ricorrere a questo termine profano: se infatti il patriarca vien detto universale, il titolo sarà sottratto a tutti gli altri. Quando un cristiano presume innalzarsi sino a questo punto egli sminuisce non di poco, l'orrore dei suoi fratelli ": "Accettare questo titolo esecrabile significa annientare la cristianità ": "Una cosa è mantenere l'unità della fede, un'altra abbattere l'arroganza degli orgogliosi. Affermo coraggiosamente che chiunque si definisce vescovo universale o accetta di essere tale si rivela precursore dell'anticristo in quanto si antepone a tutti, con orgoglio ". E ancora Atanasio: "Ho detto che il vescovo di Costantinopoli non può essere in pace con noi se non desiste dall'arroganza di quel titolo superstizioso ed orgoglioso inventato dal primo apostata; per tacere dell'ingiuria che reca a voi. Se uno è chiamato vescovo universale e cade, la Chiesa tutta precipita ". Questi sono i termini usati da san Gregorio.
Riguardo alla sua affermazione che quell'onore sarebbe stato offerto a Leone dal concilio di Calcedonia Si tratta di una notizia priva di fondamento, di cui non si fa cenno nei documenti scritti. Leone deplorando in molte epistole il decreto emanato in quella sede a favore del vescovo di Costantinopoli non avrebbe tralasciato quell'argomento, il più valido fra tutti, se gli si fosse offerto quell'onore ed egli lo avesse rifiutato. Essendo anzi uomo ambizioso non avrebbe abbandonato così facilmente ciò che in qualche modo, potesse rappresentare per lui un motivo di lode. San Gregorio si è dunque ingannato nel credere che il Concilio avesse voluto magnificare in questo modo la Sede romana. In realtà e sciocco pensare che un concilio ecumenico abbia voluto farsi promotore di un titolo che risulta cattivo, profano, esecrabile, carico di orgoglio e sacrilegio, procedente anzi dal Diavolo o, come dice san Gregorio stesso, emanato dal precursore dell'anticristo . Tuttavia egli aggiunge che il suo predecessore lo ha rifiutato temendo che gli altri vescovi venissero privati del loro legittimo onore. Ed in un altro testo: "Nessuno ha voluto essere onorato di quel titolo né si è appropriato di questo termine assurdo per tema che lo si potesse accusare di voler spogliare i suoi fratelli del loro onore ponendo se stesso in posizione di sovranità ".
5. Veniamo ora al diritto di giurisdizione su tutta la Chiesa che il Papa rivendica con estrema facilità. Sappiamo quante polemiche abbia anticamente suscitato. La Sede romana infatti non ha mai mancato di rivendicare una superiorità sulle altre Chiese; non sarà fuori luogo dimostrare con che mezzi sia giunta, sin dai tempi antichi, a conseguire qualche preminenza. Non mi riferisco a quella sregolata tirannia che, da qualche tempo, il Papa ha usurpato per se, ne tratterò in altra sede. Bisogna però valutare ora con che mezzi e come già da lungo tempo si sia innalzato, rivendicando una forma di giurisdizione sulle altre Chiese.
Nel tempo in cui le Chiese d'Oriente erano agitate e divise dalla questione ariana, sotto l'impero di Costanzo e Costante figlio di Costantino il grande, Atanasio, principale difensore della fede cattolica, fu scacciato dalla sua Chiesa. Questa disgrazia lo costrinse a rifugiarsi a Roma per poter resistere, con l'aiuto dell'autorità della Chiesa romana, alla furia dei suoi nemici, e confermare i credenti fedeli che si trovavano in una grave situazione. Giunto a Roma egli fu ricevuto con onore da Giulio, allora vescovo, e ottenne, grazie al suo intervento, che le Chiese d'Occidente assumessero le sue difese. I credenti orientali, trovandosi così nella necessità di ricevere soccorso dal di fuori e constatando essere la Chiesa romana la principale fonte di aiuto, le tributarono di buon grado quanto onore potevano. Essenzialmente però tutto si riduceva a tenere in grande considerazione il fatto di essere in comunione con lei e considerare grande ignominia l'esserne separati.
Questa dignità venne in seguito accresciuta grandemente da gente perversa e di cattiva condotta. Venne infatti considerato soluzione normale, per coloro che risultavano meritevoli di condanna nelle loro Chiese il rifugiarsi a Roma come in porto franco. Un prete veniva condannato dal suo vescovo o un vescovo dal sinodo della sua provincia? Subito si appellava a Roma. E i vescovi romani si mostravano interessati ad accogliere questi ricorsi più di quanto fosse necessario; consideravano che il potersi inserire negli affari delle Chiese lontane conferisse loro una specie di preminenza. Fu così che quando Eutiche, pessimo eretico fu condannato da Flaviano, arcivescovo di Costantinopoli, se ne venne da Leone lamentandosi di esser stato trattato ingiustamente.
E Leone non ebbe esitazioni ad impegnarsi nella difesa di una causa pessima e pericolosa, allo scopo di rivendicare la sua autorità, e mosse severi rimproveri a Flaviano perché aveva condannato un innocente prima di averlo sentito. E spinto dalla sua ambizione tanto si diede da fare che l'empietà di Eutiche si rafforzò mentre sarebbe stata soffocata senza la sua ingerenza.
Casi analoghi si verificarono spesso in Africa. Non appena un briccone veniva condannato dal suo giudice si precipitava a Roma e con calunnie accusava il suo vescovo di aver agito male nei suoi riguardi. La Sede romana si dimostrò sempre pronta ad intervenire, e fu questa ingerenza dei vescovi romani che spinse i vescovi africani a vietare, pena la scomunica, che ci si appellasse oltre mare,
6. Comunque stessero le cose vediamo di quale autorità e di quale potere giurisdizionale godesse allora la Sede romana. Nel risolvere questo punto bisogna notare che la potestà ecclesiastica consiste in quattro elementi: consacrare vescovi, convocare concili, esercitare giurisdizione inferiore o superiore, fare ammonizioni e censure.
Riguardo al primo punto tutti gli antichi concili stabiliscono che ogni vescovo sia ordinato dal suo metropolita e non prevedono l'intervento del vescovo di Roma all'infuori della sua provincia. A poco a poco è però invalsa l'abitudine che tutti i vescovi d'Italia si recassero a Roma per esservi consacrati ad eccezione dei metropoliti che rifiutarono di sottomettersi a questa servitù. Quando dovevano essere ordinati i metropoliti, il vescovo di Roma inviava uno dei suoi preti unicamente per assistere al rito e non per presiedere. Un esempio di questo fatto si trova in una epistola di san Gregorio concernente la consacrazione di Costanzo arcivescovo di Milano dopo la morte di Lorenzo; penso, però, si trattasse di una prassi recente. È: verosimile che si sia cominciato con l'inviare, in segno di comunione reciproca, ambasciatori per assistere alla consacrazione manifestando così la propria amicizia e la propria stima. Si è in seguito mutato in norma legale ciò che prima si faceva liberamente.
È comunque notorio che il vescovo di Roma aveva anticamente potestà di consacrare i vescovi solamente nella sua provincia, cioè nelle Chiese dipendenti dalla sua sede, come è precis.to dal canone di Nicea.
Alla consacrazione vescovile si associava, per consuetudine, l'invio di epistole sinodali; in questo il vescovo di Roma non era per nulla superiore agli altri. Si tratta di questo: tutti i patriarchi avevano infatti l'abitudine, subito dopo la loro consacrazione, di inviarsi reciprocamente una epistola in cui dichiaravano la loro fede e facevano professione di aderire alla dottrina dei santi concili. Facendo questa professione di fede si informavano reciprocamente della propria elezione. Qualora il vescovo di Roma avesse ricevuto dagli altri questa confessione e da parte sua non l'avesse data avrebbe realmente goduto di una superiorità; essendo però tenuto, come gli altri, a fare questo, ed essendo sottomesso ad una legge comune è chiaro che, nello scrivere la lettera vescovile, egli dimostrava la sua comunione ma non la sua signoria. Esempi di questo atteggiamento si trovano nelle epistole di san Gregorio, per esempio a Ciriaco, ad Anastasio, e ai patriarchi tutti.
7. Il secondo elemento è rappresentato dalle ammonizioni e le censure di cui i vescovi romani hanno fatto uso nei riguardi degli altri accettando però che altrettanto venisse fatto nei loro riguardi.
Ireneo, vescovo di Lione, rimproverò aspramente Vittore, vescovo di Roma, per aver sollevato una grave e dannosa polemica nella Chiesa per futili motivi; quello accettò l'ammonizione senza replicare. Per lungo tempo fra i santi vescovi è esistita questa libertà nell'ammonire fraternamente i vescovi romani e rimproverarli quando sbagliavano.

Analogamente costoro, quando se ne presentava l'occasione, ammonivano per parte loro gli altri vescovi. San Cipriano nell'invitare Stefano, vescovo romano, ad ammonire i vescovi delle Gallie, non trae argomento dal fatto che egli abbia podestà su di loro, ma dal diritto dei vescovi dei loro rapporti reciproci. Ora mi domando se Stefano avesse avuto giurisdizione sulle Gallie, Cipriano non avrebbe egli forse detto: puniscili, perché sono sotto la tua giurisdizione? Si esprime ben diversamente: "La comunione fraterna "dice "che ci unisce insieme, richiede che ci ammoniamo reciprocamente ". E sappiamo che egli fa uso in un'altra occasione di espressioni violente rimproverandolo di aver voluto far uso di una libertà eccessiva.
Non risulta dunque che, in quella circostanza, il vescovo di Roma abbia avuto giurisdizione su quelli che non erano della sua provincia.
8. Riguardo alla convocazione di concili, spettava ad ogni metropolita far tener sinodi nella sua provincia una o due volte all'anno a tempo opportuno; in questo il vescovo di Roma non c'entrava. Il concilio ecumenico era convocato dall'imperatore soltanto e i vescovi vi convenivano solo in virtà della autorità di lui. Qualora un vescovo avesse preso una iniziativa del genere, non solo non avrebbe trovato obbedienza negli altri che erano fuori del confine della sua provincia, ma avrebbe provocato immediatamente un grave scandalo. L'Imperatore convocava dunque tutti i vescovi. Lo storico Socrate narra bensì che Giulio. Vescovo di Roma, si lamentava che i vescovi orientali non lo avessero convocato al concilio di Antiochia, affermando che era proibito dai canoni prendere decisioni senza averne informato il vescovo di Roma. Chi non capisce però che questo si riferisce ai decreti che riguardano la Chiesa universale? Non deve dunque stupire che si sia fatto, in considerazione dell'antichità e della nobiltà della città e altresì della dignità di quella Chiesa l'onore di non emanare alcuna legge universale, concernente la dottrina cristiana, in assenza del vescovo di Roma, purché non avesse rifiutato di partecipare. Come è possibile partendo da questo fatto fondare un'autorità sulla Chiesa tutta? Non neghiamo infatti che il vescovo di Roma sia stato uno dei principali; quello che non possiamo invece ammettere è l'affermazione dei romanisti secondo cui egli ebbe autorità su tutti.
9. Ci rimane ora da esaminare il quarto elemento della potestà ecclesiastica: il diritto di esaminare le cause in appello.
L'autorità a cui ci si appella è notoriamente un'autorità superiore. Molti, anticamente si sono appellati al vescovo di Roma; lui stesso, per parte sua, ha fatto ogni sforzo per avocare a se l esame delle cause; non è però mai stato preso in considerazione quando ha voluto oltrepassare i suoi limiti.
Non mi riferisco né all'oriente né alla Grecia; è noto però che i vescovi della Gallia gli hanno opposto una resistenza molto ferma quando ha lasciato intendere, in qualche modo, di voler usurpare la loro autorità.
In Africa questo problema è stato lungamente dibattuto Avendo il concilio di Miledo, a cui partecipava sant'Agostino; comminato la scomunica per tutti coloro che si fossero appellati oltremare, il vescovo di Roma fece ogni sforzo per far modificare questo decreto, inviò degli ambasciatori per rivendicare quel diritto come essendogli stato conferito dal concilio di Nicea. Costoro produssero dei documenti, tratti dagli archivi della loro Chiesa, attribuendone la paternità al concilio di Nicea. Dal canto loro gli Africani opposero resistenza affermando che non si doveva prestar fede al vescovo di Roma in una causa in cui risultava lui stesso direttamente implicato. Venne così presa la decisione di inviare a Costantinopoli e nelle altre città della Grecia delle delegazioni per richiedere copie meno sospette degli atti conciliari di Nicea. Quivi non si trovò nulla di quanto i delegati di Roma avevano sostenuto. Venne perciò mantenuto in pieno vigore il decreto che negava la giurisdizione suprema del vescovo di Roma, e venne così smascherata la sua spudorata arroganza, e altresì la sua falsità in quanto egli aveva voluto far credere che fossero atti del concilio di Nicea quelli che in realtà erano di Sardica.
Perversione ancora maggiore e più sfrontata quella dei falsari che hanno aggiunto agli atti del concilio una epistola, inventata di sana pianta, dove il successore di Aurelio, deplorando l'arroganza del suo predecessore che si sarebbe sottratto con eccessiva audacia all'obbedienza della Sede apostolica, umilmente si sottomette con i suoi e chiede di essere perdonato . Sono questi i documenti antichi su cui poggia la dignità della Sede romana: spacciare sotto veste di antichità sciocchezze tali che un cieco è in grado di scoprire. Aurelio (dice questo bel documento ) , gonfio di diabolica audacia ha osato ribellarsi a Gesù Cristo e a san Pietro ed è pertanto degno di scomunica. Ma che dovremmo dire di sant'Agostino? E dei molti Padri che hanno assistito al concilio di Miledo? Che necessità abbiamo di refutare con molte parole un detto così stupido che fa arrossire gli stessi romanisti quando non siano del tutto privi di pudore? Graziano, nel redigere le decretali (non so se mosso da malizia o da ignoranza ) , dopo aver menzionato questo canone, secondo cui nessuno deve appellarsi oltre mare pena la scomunica, aggiunge questa eccezione: fuorché alla Sede romana.
Che cosa dobbiamo rispondere a bestie così prive di buon senso da trasformare in eccezione proprio il punto per cui la legge fu espressamente emanata, come ognuno è in grado di vedere? Il Concilio infatti nel proibire che ci si appellasse oltre mare, intende dire proprio questo: che non ci si appelli a Roma.
10. Per porre fine alla questione, e volendo illustrare qual sia stata anticamente la giurisdizione del vescovo romano, ci basterà far menzione di un fatto narrato da sant'Agostino. Donato, che si chiamava di Casanera, scismatico, aveva accusato Ceciliano, arcivescovo di Cartagine e tanto aveva fatto che quest'ultimo era stato condannato, senza essere interrogato; sapendo infatti che si trattava di una congiura di vescovi contro di lui egli si rifiutava di comparire in giudizio. La questione giunse all'imperatore Costantino. Questi, ritenendo che la causa dovesse essere giudicata da un tribunale ecclesiastico, ne affidò l'incarico a Melciade, allora vescovo di Roma, e ad alcuni altri vescovi d'Italia, di Gallia, e di Spagna da lui nominati. Se una causa di questo genere rientrava nella giurisdizione ordinaria della Sede romana, come si spiega il fatto che Melciade accetta che l'Imperatore gli nomini degli assistenti? Anzi, perché quel processo di appello gli viene affidato per decisione imperiale e non lo avoca a se di sua autorità?

Ascoltiamo però ciò che accadde in seguito. Ceciliano venne assolto. La calunnia di Donato di Casanera fu smascherata ma egli si appellò. L'imperatore Costantino lo rinviò in appello dinanzi all'arcivescovo di Arles. Eccoti dunque l'arcivescovo di Arles posto in condizione, qualora lo giudichi opportuno, di cassare la sentenza del vescovo romano, o per lo meno di giudicare in seconda istanza sopra di lui. Se la Sede romana avesse avuto la giurisdizione assoluta, senza possibilità di appello, avrebbe Melciade tollerato l'ingiuria di essere posposto all'arcivescovo di Arles? Quale imperatore ha preso questa decisione? Costantino, che ha messo, secondo quanto essi affermano, non solo tutta la sua attenzione ma tutta la sua attività per esaltare la dignità della loro Sede romana.
Risulta dunque evidente che il vescovo di Roma era ancora lontano da questa autorità suprema che, secondo quanto egli afferma, gli è stata affidata da Gesù Cristo su tutte le Chiese e riguardo alla quale, egli pretende falsamente, di aver avuto sempre il consenso di tutti.
2. Sappiamo quanto siano numerosi i rescritti e le epistole decretali dei pontefici in cui essi vantavano la loro autorità illimitata; ogni persona dotata però di un minimo di intelligenza e di cultura capisce, di fronte a queste epistole solitamente così sciocche e prive di serietà, da quale ambiente provengano.
Quale persona sana di mente e di buon senso può infatti credere che Anacleto sia l'autore di quella ridicola esegesi, citata da Graziano sotto il nome di lui, secondo cui Cefa significa capo? Innumerevoli sono le sciocchezze raccolte da Graziano senza senso critico e di cui i romanisti fanno uso oggi, nella polemica contro di noi, per difendere la loro sede. E non si vergognano di introdurre in una questione così evidente quelle oscurità di cui si sono anticamente serviti per mantenere il popolo nelle tenebre. Non voglio però affaticarmi a smentire queste sciocchezze che si smentiscono da sole tanto sono ridicole.
Ammetto certo che si possiedano altre epistole realmente scritte da papi antichi, in cui essi si sforzano di esaltare la grandezza della loro sede, attribuendole titoli eccellenti, come nel caso di Leone. Benché infatti si tratti di un uomo sapiente ed eloquente è stato bramoso di gloria e di smisurata potenza. Vorrei sapere però se le Chiese hanno realmente prestato fede alla sua testimonianza, quando egli si esprimeva in questi termini. Risulta in realtà che molti, urtati dalla sua ambizione, hanno resistito alla sua brama di potenza. In una epistola egli ordina il vescovo di Tessalonica quale vicario per la Grecia ed i paesi limitrofi; quello di Arles, o di non so quale altra città, per la Gallia, e Ormida, vescovo per la Spagna; in tutti i casi però egli aggiunge questa eccezione, che queste cariche sono da lui affidate a condizione di non recare in alcun modo offesa agli antichi privilegi degli arcivescovi. E dichiara lui stesso che uno dei privilegi essenziali era di esaminare in prima istanza le controversie e le difficoltà che si fossero verificate. Questo vicariato dunque si presentava in forma tale da non impedire che il vescovo esercitasse la sua giurisdizione ordinaria, un arcivescovo fosse escluso dal governo della sua provincia, o l'attività dei sinodi fosse in qualche modo pregiudicata. Si caratterizza dunque come l'astenersi da ogni forma di giurisdizione e semplicemente offrire una mediazione per appianare i conflitti, secondo la natura stessa della comunione della Chiesa che richiede che i membri si preoccupino gli uni degli altri.
12. Già al tempo di san Gregorio questa situazione risulta mutata. Essendo l'Impero fortemente in crisi in quanto la Gallia e la Spagna erano agitate da guerre, l'Illiria era devastata, l'Italia parecchio danneggiata, l'Africa quasi interamente perduta e saccheggiata; i vescovi cristiani, desiderando che almeno l'unità della fede permanesse salva in una situazione politicamente così confusa, si ricollegavano al vescovo di Roma, e ne risultò che non solo la dignità della sede ne fu accresciuta, ma anche la autorità.
Non ci interessa sapere con quali procedimenti si sia giunti a questa situazione, ma il solo fatto che in quel tempo l'autorità risultò molto maggiore di quanto fosse stata prima. Siamo tuttavia lontani da un tipo di superiorità tale che si possa parlare di un dominio di uno sugli altri. La Sede romana risultava soltanto oggetto di tale riverenza da ricevere l'autorità di reprimere e correggere i ribelli che non si fossero lasciati ammonire da altri colleghi. San Gregorio infatti dichiara sempre espressamente di voler conservare agli altri i loro diritti non meno di quanto voglia tutelare i suoi: "Non intendo "dice "far torto a nessuno per ambizione; ma desidero onorare i miei fratelli ovunque ed in ogni modo ". Non si trova in nessuno dei suoi scritti affermazione più forte riguardo al primato che laddove egli dice: "Non conosco vescovo che non sia soggetto alla Sede apostolica, quando si trovi in fallo ". Egli aggiunge però subito: "Quando non si riscontra colpa, tutti sono eguali per diritto di umiltà "
Con questo egli intede attribuirsi l'autorità di correggere coloro che hanno errato, facendosi però eguale a quelli che compiono il loro dovere. Bisogna anche notare che si attribuisce da se tale autorità; e questa gli veniva riconosciuta da quelli a cui sembrava bene. Se qualcuno giudicava dovergliela rifiutare, era nel suo pieno diritto; risulta infatti che molti gli hanno opposto resistenza.
Anzi si deve notare che egli parla, in questo testo, del primate di bis.nzio, il quale condannato dal suo concilio provinciale non aveva tenuto in conto la sentenza di tutti i vescovi del paese, che avevano indirizzato all'imperatore le loro rimostranze. L'Imperatore aveva affidato la causa a san Gregorio perché la esaminasse. Egli non prendeva dunque una iniziativa che poteva apparire violazione della giurisdizione ordinata, e quanto faceva per recare aiuto agli altri, era fatto solo su richiesta dell'imperatore.
13. Ecco dunque in che cosa consisteva l'autorità del vescovo romano di quei tempi: resistere ai ribelli e agli ostinati ogni qual volta si richiedeva un intervento di tipo straordinario, allo scopo di aiutare gli altri vescovi e non di por loro ostacoli. Non assume dunque, nei confronti degli altri, nessuna iniziativa che non riconosca legittima nei suoi confronti, accettando di essere ammonito da tutti e corretto da tutti. Analogamente egli ordina bensì in un'altra epistola al vescovo di Aquilea di presentarsi a Roma per render ragione della sua opinione riguardo ad un argomento allora dibattuto fra lui e i suoi vicini; ma prende questa decisione unicamente in seguito ad un ordine imperiale, come egli dice, e non sulla base della sua autorità. Dichiara anzi che non sarà solo a procedere al giudizio, ma promette di convocare il concilio nella sua provincia per questo.
Eppure, quantunque ci si trovasse allora in una situazione moderata in cui l'autorità della Sede romana era mantenuta nei suoi limiti, che non era possibile oltrepassare, e il vescovo romano non possedesse sogli altri vescovi una autorità né questi gli fossero sottoposti, è tuttavia noto quanto tale situazione dispiacesse a san Gregorio. Egli si lamenta infatti qua e là che diventato vescovo è in realtà ritornato nel mondo ed è impegnato in questioni terrene più di quanto fosse vivendo fra laici sì da essere quasi sommerso da problemi di ordine secolare. In un altro testo: "Io sono così carico "dice "di impegni che la mia anima non può alzarsi in alto. Dispute e petizioni mi assalgono come le ombre. Dopo aver vissuto pacificamente sin qui sono ora in balia di varie tempeste in un'esistenza piena di affanni; talché io posso ben dire: "sono entrato nelle profondità del mare e la tempesta mi copre ". Immaginate ora quale sarebbe la sua reazione vivendo al giorno d'oggi. Quantunque non sia investito dell'ufficio di pastore, tuttavia lo esercita. Non si ingerisce nei problemi del governo civile e terreno ma si dichiara suddito dell'imperatore come tutti gli altri. Non si occupa degli affari delle altre Chiese se non per stretta necessità; eppure ha la sensazione di essere prigioniero in un labirinto in quanto non può consacrarsi esclusivamente alla sua missione vescovile.
14. Come abbiamo detto, l'arcivescovo di Costantinopoli era allora in conflitto con quello di Roma per il primato. Da quando la Sede imperiale era stata trasferita a Costantinopoli, sembrava logico che questa Chiesa avesse il secondo posto. E in realtà era stata questa la ragione principale per cui, sin dall'inizio, si era conferito a Roma il primato in quanto sede dell'impero. Graziano cita uno scritto di Lucio papa dove è affermato che si sono delimitati gli arcivescovati e le sedi dei primati seguendo l'ordine del governo temporale; si sono cioè definite le sedi in modo tale che il grado di preminenza, nel campo spirituale, assegnato ad una città, si stabilisse in base alla sua posizione di superiorità o di inferiorità nell'ordine temporale.
Esiste altresì un altro rescritto noto sotto il nome di Clemente in cui vien detto che i patriarcati sono stati istituiti nelle città in cui esistevano prima del Cristianesimo le principali sedi sacerdotali. Questa tesi è notoriamente errata, in qualche modo però si avvicina alla realtà. Infatti noto che in un primo tempo, come è stato detto, per non provocare cambiamenti troppo bruschi, le sedi dei vescovi e dei privati sono state fissate secondo un ordine gerarchico già esistente nell'ordine delle realtà politiche; primati e metropoliti furono stabiliti nelle sedi dei governatori e dei magistrati. Fu pertanto stabilito nel primo concilio di Torino che le città superiori alle altre nell'ordine temporale fossero anche le prime ad avere le sedi episcopali; qualora la superiorità politica venisse trasferita da una città all'altra fosse pure trasferita la sede arcivescovile.
Innocenzo, papa di Roma, constatando che l'importanza della sua città stava declinando da quando la Sede imperiale era stata trasferita a Costantinopoli, e temendo che in tal modo la sede venisse a perdere il suo prestigio, emanò una legge opposta con cui decreto non essere necessario mutare la gerarchia delle preminenze ecclesiastiche quando venisse una mutazione nell'ordine civile. Ragionevolmente però dovremmo anteporre l'autorità di un concilio a quella di una singola persona. C'è anzi di più. Innocenzo è sospetto in quanto difende la propria causa. Comunque sia il suo decreto è chiaro indice del fatto che anticamente vigeva questa prassi: gli arcivescovati erano stabiliti in base alle preminenze civili di questa o quella città.

15. In base a questa antica tradizione fu decretato al primo concilio di Costantinopoli che si dovesse considerare al secondo posto, in ordine e grado, il vescovo di quella città in quanto si trattava della nuova Roma. Parecchio tempo dopo avendo il concilio di Calcedonia emanato un decreto simile, Leone vescovo di Roma, vi si oppose fermamente e risolutamente, avendo non solo l'ardire di disprezzare le decisioni e le conclusioni di seicento vescovi ma accusandoli apertamente, come appare dalle sue epistole, di aver sottratto alle altre Chiese l'onore che era stato tributato a Costantinopoli. Che cosa se non la pura ambizione poteva incitarlo a turbare l'universo, mi domando, per motivi così leggeri e frivoli?
Egli afferma che quanto deciso una volta al concilio di Nicea deve risultare inviolabile; quasi la cristianità corresse il pericolo di scomparire perché era stata preferita una Chiesa ad un'altra, o i patriarchi si fossero radunati a Nicea non avendo altro fine o altra intenzione che il mantenimento dell'ordine. È chiaro però che il mantenimento dell'ordine autorizza, anzi richiede, secondo le situazioni, di procedere a mutamenti. Vano pretesto è dunque quello di Leone quando afferma che non si deve affatto trasferire alla sede di Costantinopoli l'onore che il concilio di Nicea aveva anteriormente attribuito ad Alessandria. È fin troppo evidente infatti che si trattava di un decreto suscettibile di essere modificato secondo le circostanze.
Come mai nessuno dei vescovi orientali, più direttamente interessati, trovò nulla da ridire? Protero, eletto vescovo di Alessandria al posto di Dioscoro era pur presente, e gli altri patriarchi il cui onore risultava così sminuito. A quelli spettava fare obiezioni, non a Leone, la cui posizione non veniva minimamente sminuita. Ma poiché tutti costoro tacevano, anzi approvavano quella decisione, ed era il solo vescovo di Roma a dissentire, è facile dedurre quali fossero i motivi che lo spingevano: egli prevedeva ciò che poco dopo sarebbe accaduto, che cioè declinando la gloria della vecchia Roma, Costantinopoli, non accontentandosi del secondo posto, avrebbe preteso di assumere il primo posto. Non poté però impedire, malgrado tutto il suo strepito che il decreto del Concilio entrasse in vigore. I suoi successori, pertanto, vedendo che non ottenevano nulla, abbandonarono questo atteggiamento di ostinata preclusione; essi ordinarono infatti che Costantinopoli dovesse essere considerato il secondo patriarcato.
16. Poco tempo dopo, però, al tempo di san Gregorio, il vescovo di Costantinopoli, Giovanni si spinse al punto di pretendere il titolo di patriarca ecumenico. Gregorio non volendo rinunciare all'onore della sua sede, si oppose, a ragione, a questa follia. Certo si trattava di orgoglio intollerabile e di sregolata follia da parte del vescovo di Costantinopoli: il voler estendere il suo vescovato su tutto l'Impero. Gregorio però non pretende che l'onore negato all'altro appartenga a lui, ma è il titolo stesso che egli aborrisce, da chiunque venga usurpato, in quanto perverso e contrario all'onore di Dio; si indigna, anzi, in una sua epistola a Eulogio, vescovo di Alessandria, che glielo aveva attribuito: "Ecco ", dice "nel proemio dell'epistola che mi avete indirizzata, avete fatto uso di quel termine orgoglioso chiamandomi "papa universale "; cosa che prego la Santità vostra di non ripetere; poiché tutto ciò che viene attribuito ad un altro, oltre il ragionevole, viene sottratto a voi. Per parte mia non reputo sia onore per me ciò che sottrae onore ai miei fratelli. In questo consiste il mio onore: che la condizione della Chiesa universale e dei miei fratelli sia mantenuta nella sua integrità. Se la Santità vostra mi chiama "papa universale "ammette di non essere, in parte, ciò che io dovrei essere interamente ".
La causa difesa da san Gregorio era buona e giusta; ma essendo Giovanni appoggiato dall'imperatore Maurizio non lo si poté distogliere dal suo intento. Similmente Ciriaco, suo successore, si mantenne fermo in questa stessa ambizione, al punto che non si poté mai ottenere da lui che ne desistesse.
17. Foca, infine, eletto imperatore dopo la morte di Maurizio (non so per qual ragione favorevole ai Romani, forse perché quivi era stato incoronato senza difficoltà ) , concesse a Bonifacio 3quanto san Gregorio non aveva mai chiesto: che Roma fosse alla testa di tutte le altre Chiese. In questo modo venne risolta la questione.
Questo beneficio imperiale però non avrebbe recato grande giovamento alla Sede romana se non fossero sopraggiunti altri fattori. Poco tempo dopo infatti tutta l'Asia e la Grecia furono sottratte alla sua comunione. La Gallia aveva di lui tanta riverenza da essere sottomessa nel modo che a lui piaceva; e non fu mai schiava del tutto se non dopo l'occupazione del regno da parte di Pipino. Zaccaria, papa in quei tempi, avendo aiutato a scacciare il suo re ed il suo legittimo signore per impadronirsi del potere regio, ottenne, a mo' di ricompensa, che tutte le Chiese della Gallia fossero sottomesse alla giurisdizione della Sede romana. Come dei briganti che hanno l'abitudine di spartirsi il bottino, questa brava gente, dopo aver condotto a termine questo furto, fece la sua divisione in modo tale che a Pipino toccò la signoria temporale ed a Zaccaria quella spirituale.
Dato però che egli non ne godeva in modo del tutto libero, perché le novità sono difficili da introdurre, fu confermato nella sua posizione di preminenza da Carlo Magno per analoghi motivi. Carlo Magno infatti era venuto ad esprimere la sua riconoscenza al vescovo di Roma per essere giunto al potere imperiale in parte Cl. Suo aiuto. Quantunque sia lecito supporre che già in precedenza le Chiese avessero perso ovunque il loro aspetto originario, è chiaro che in quel momento le forme primitive risultarono annullate del tutto in Francia e in Germania. Esistono tuttora negli archivi del Parlamento di Parigi i registri, redatti in forma di cronache, in cui, trattandosi di questioni ecclesiastiche' si fa menzione dei contratti stipulati da Pipino e Carlo Magno Cl. Vescovo di Roma da questo risulta dunque chiaramente che, in quel periodo, vennero mutate le antiche condizioni della Chiesa.
18. Da quel tempo, peggiorando la situazione ogni giorno, la tirannia della Sede romana si accresce Cl. Passar del tempo. E di questo fu causa in parte la stupidità dei vescovi, in parte il loro disinteresse. Mentre infatti il vescovo di Roma si innalzava di giorno in giorno usurpando ogni diritto, i vescovi non dimostrarono zelo necessario per reprimere la sua cupidigia; quand'anche ne avessero avuto l'intenzione, essendo privi di capacità e di intelligenza, non sarebbero stati all'altezza di quel compito.

Noi vediamo perciò che disordine regna a Roma ai tempi di san Bernardo, anzi, che profanazione della cristianità. Egli lamenta il fatto che da ogni parte del mondo, ambiziosi, avari, simoniaci, incestuosi, adulteri, gente di Ma.affare si recasse a Roma per ottenere, con l'appoggio dell'autorità apostolica, onori ecclesiastici o per mantenerli. Affermando che quivi si trova il regno della frode, dell'inganno, della violenza; dichiarando altresì che le sentenze, quivi pronunciate, risultavano esecrabili, indegne non solo della Chiesa ma di una qualsiasi giustizia laica. Si dimostra indignato del fatto che la Chiesa sia piena di gente ambiziosa e nessuno abbia paura di commettere ogni sorta di delitti, e che la situazione sia paragonabile ad una caverna in cui i briganti si spartiscono il bottino rubato ai viaggiatori: "Sono pochi quelli che hanno riguardo a ciò che dichiara la bocca del legislatore "dice "ma tutti guardano le sue mani, a ragione, sono esse infatti che esprimono tutta l'attività del Papa ". Poco dopo, rivolgendosi al Papa dice: "Chi sono i tuoi adulatori che ti dicono: "orsù, coraggio "? Te li procacci con le spoglie delle Chiese; la vita dei poveri è buttata in mano ai ricchi, il denaro riluce nel fango e da ogni parte si accorre ma non lo raccoglie il più povero, bensì il più forte o colui che corre più rapidamente. Questa prassi, sarebbe più esatto dire questa corruzione mortale, non ha preso inizio al tempo tuo; volesse Dio che vi prendesse fine. Sei però vestito e agghindato con ricercatezza. Osassi dirlo, affermerei che la tua sede è più un parco di diavoli che di pecore. Agiva forse in questo modo san Pietro? San Paolo si faceva in questo modo beffe di Dio? La tua corte è solita raccogliere i buoni più che renderli tali. I malvagi non vi fanno carriera, ma i buoni diventano però malvagi ". Egli narra in seguito gli abusi che si permettevano nelle cause di appello e nessun credente può leggere quelle pagine senza inorridire.
Accennando infine alla cupidigia della Sede romana nell'usurpare una giurisdizione che non gli spetta, conclude in questi termini: "Queste sono le lamentele e i mormorii di tutta la Chiesa: essere fatte a pezzi e smembrate, poche, nessuna, che non soffra questo flagello o lo tema. "Quale flagello? "Domandi. Gli abati sono sottratti alla giurisdizione dei loro vescovi, i vescovi a quella dei loro arcivescovi, come è possibile accettare questo? Così facendo dimostrate bensì di avere pienezza di potere ma non di giustizia. Agite in questo modo perché potete farlo, si tratta però di sapere se lo dovete fare. Siete collocati al posto vostro per serbare ad ognuno il suo posto e il suo onore non per essere invidiosi ". Dice molte cose in più, ma ho voluto soltanto citare, per inciso, queste parole affinché i lettori si rendano conto di quanto fosse già decaduta allora la Chiesa, e d'altra parte quanto fosse difficile da tollerare questa calamità, e risultassero amare, per tutti i buoni credenti.
19. Quand'anche concedessimo al Papa quella preminenza e quell'autorità che la Sede romana ebbe ai tempi di Leone e di Gregorio, che vantaggio ne trarrebbe il papato nella situazione attuale? Non affronto ancora il problema della potestà secolare e dell'autorità terrena di cui parleremo a suo tempo, ma tratto unicamente del regime spirituale che hanno attualmente e di cui si gloriano. In che la situazione risulta simile a quella dei tempi antichi di cui abbiamo parlato? I Romanisti infatti quando parlano del Papa affermano che egli è il capo supremo della Chiesa in terra e vescovo universale del mondo . Ed i papi stessi, parlando dell'autorità loro, pretendono avere la potestà di comandare e che tutti siano loro sottomessi in condizione di obbedienza, che le loro decisioni siano osservate, quasi la voce di san Pietro, dal cielo, le confermasse, che i concili provinciali cui il Papa non è presente risultino privi di valore, che spetti loro l'autorità di ordinare preti e diaconi su tutte le altre Chiese, che possano richiamare a se, sottraendoli dalle loro Chiese, quelli che risultino ordinati altrove.
Il numero di queste millanterie è infinito nel decreto di Graziano; non le citerò per non importunare oltre il lettore. La sostanza si riduce a questo: il vescovo di Roma ha potestà sovrana su tutte le cause ecclesiastiche, gli spettano il diritto di giudizio e la determinazione in materia dottrinale; la potestà di emanare leggi e statuti, di esercitare la disciplina, di imporre l'autorità giurisdizionale. Troppo lungo e superfluo sarebbe fare l'elenco dei privilegi che si attribuiscono in materia processuale, insopportabile, soprattutto, la presunzione di non tollerare in terra alcuna istanza che ponga freno, o limite, alla loro sregolata cupidigia nel caso abusino del loro potere che si trova così a non aver norma né limite alcuno. Non è lecito a nessuno, dicono porre in discussione i giudizi della nostra Sede, in virtù del primato da noi posseduto e anche: colui che è giudice sovrano non può essere giudicato né dall'imperatore né dal re, né dal clero, né dal popolo. Oltrepassa già ogni limite il fatto che ogni uomo possa pretendere di esser giudice di tutti e non accetta di esser soggetto a nessuno. Che diremmo però vedendolo esercitare la sua tirannia sul popolo di Dio? Ovvero quando distrugge e danneggia il regno di Cristo, turba e sovverte la Chiesa tutta, muta l'ufficio di pastore in ribalderia? Non c'è soluzione, quand'anche fosse il peggiore degli uomini, non deve essere corretto da nessuno; ecco infatti gli editti del Papa: "Dio ha voluto che tutte le altre cause fossero risolte sulla base di giudizi umani, ma ha riservato al suo giudizio esclusivo il prelato della nostra Sede ". E ancora: "le azioni dei nostri sudditi sono giudicate da noi, ma le nostre sono giudicate da Dio soltanto ".
20. Per rivestire queste pretese di maggiore autorità le hanno falsamente attribuite ad alcuni papi antichi, come se la situazione fosse sempre stata quella odierna; mentre è evidente che tutte le prerogative papali, che oltrepassano le attribuzioni conferite dagli antichi concili, di cui abbiamo parlato, sono frutto di invenzioni recenti e perciò posteriori; anzi, nella loro impudenza, si sono spinti al punto da pubblicare un rescritto sotto il nome di Anastasio, patriarca di Costantinopoli, in cui egli riconosce che è stato stabilito dai canoni antichi non potersi prendere decisione alcuna, anche nei paesi più lontani, senza una discussione preliminare con la Sede romana . Trattasi notoriamente di un falso; come potrebbero infatti farci credere che si sia espresso in questi termini un oppositore della Chiesa romana, un patriarca in polemica con il Papa riguardo alla sua dignità? Ma questi anticristi dovevano essere trascinati da tale furia e cecità perché ogni uomo di mente sana fosse in grado di constatare la loro perversione; quelli che vogliono vedere, s'intende.
Le decretali compilate da Gregorio 9, le clementine, le stravaganze di Martino, manifestano in modo ancor più esplicito, quasi gridano, una disumana arroganza e una concezione tirannica assolutamente barbara. Son questi gli oracoli in base ai quali i Romanisti pretendono si valuti il loro papato, da cui sono derivati i loro articoli di fede che considerano provenienti dal cielo: il Papa non poter errare, inoltre: essere lui superiore a tutti i concili, e ancora: essere egli vescovo universale e capo supremo della Chiesa intera. Tralascio altre sciocchezze ancor più assurde che i canonisti raccontano nelle loro scuole, anche se i teologi sorbonisti non solo le accolgono ma le tengono in grande considerazione per adulare il loro idolo.
21. Non starò ad accanirmi contro costoro. Chi volesse però abbassare loro la cresta, potrebbe citare la sentenza pronunciata da san Cipriano al concilio di Cartagine da lui presieduto: "Nessuno fra noi si dice vescovo dei vescovi, nessuno costringe i suoi compagni ad obbedirgli con timore, frutto di tirannia ". Si potrebbe altresì citare il decreto del concilio di Cartagine secondo cui nessuno debba chiamarsi principe dei vescovi o primo vescovo. Parecchie sono le testimonianze storiche che si potrebbero menzionare, i decreti conciliari, le sentenze dei Padri antichi il cui vescovo di Roma è visto in una luce che lascia chiaramente intendere che egli non disponeva di tutto questo potere. Tralascio queste cose onde non sembri che da parte mia viene dato a questo tema importanza eccessiva; chiedo solo a quelli che vogliono mantenere la Sede romana se non si vergognano di giustificare quel titolo di vescovo universale così spesso anatemizzato da san Gregorio. Se la testimonianza di san Gregorio ha qualche valore, facendo il loro papa vescovo universale lo dichiarano esplicitamente quale Anticristo. Il termine "capo "non era più in uso ai tempi di san Gregorio, egli infatti si esprime così in un testo: "Pietro era membro principale del corpo di Cristo, Giacomo, Giovanni, Andrea erano capi dei popoli singoli, tuttavia sono stati tutti membri della Chiesa sotto un solo capo; gli stessi santi prima della Legge, quelli sotto la Legge, i santi nella grazia, tutti sono costituiti membra per condurre al compimento il corpo di Cristo; e nessuno mai vorrebbe essere detto universale ". La pretesa papale di possedere l'autorità di comandare non si concilia facilmente con queste altre dichiarazioni di san Gregorio. Avendogli Eulogio vescovo di Alessandria scritto usando l'espressione: "secondo quanto avete ordinato ", Gregorio gli risponde in questi termini: "Eliminate "vi prego questo termine: "ordine ". So chi son io e so chi siete voi; nella gerarchia vi considero fratello, nella santità padre. Non vi sto dunque ordinando alcunché, vi ho soltanto informato di ciò che mi pareva utile. Il fatto che il Papa estende in questo modo la sua giurisdizione senza limiti non reca solo ingiuria e offesa agli altri vescovi, ma alla Chiesa tutta; in tal modo la smembra pezzo a pezzo, per edificare il suo regno sull'altrui rovina. Il pretendersi esente da ogni giudizio, il voler regnare in modo così tirannico che il piacere suo diventa legge è così contrario al governo della Chiesa da non potersi in alcun modo giustificare. Si tratta infatti di un atteggiamento che ripugna non solo alla fede cristiana, ma alla coscienza umana.
22. Per non esaminare tuttavia nei dettagli tutti questi punti, chiedo ancora una volta a quegli avvocati della Sede romana se non risentono vergogna nel difendere le attuali condizioni del papato che risulta essere cento volte più corrotto di quanto fosse al tempo di san Gregorio e di san Bernardo. Eppure queste sante persone si erano già grandemente indignate nel vedere ciò che già allora vedevano.
San Gregorio si lamenta qua e là del fatto che è distolto dal suo ufficio da mansioni indegne di esso e che è tornato al mondo sotto veste di vescovo, risultando impegnato in questioni terrene più di quanto fosse ai tempi in cui era laico; di essere soffocato da problemi secolari al punto che il suo spirito non può innalzarsi verso l'alto; egli si sente agitato dalle onde come in una tempesta e può affermare di essere sprofondato negli abissi del mare. Certo è che tutti questi impegni terreni non gli hanno impedito di predicare nella Chiesa al popolo, di ammonire in privato coloro che ne avevano bisogno, di mettere ordine nella sua Chiesa, di dare consigli ai vescovi vicini esortandoli a compiere il loro dovere; gli restava ancora tempo a sufficienza per scrivere libri, come ha fatto. Tuttavia egli si lamenta della sua disgrazia e dice di essere precipitato in fondo al mare. Se in quei tempi il governo fu un male, che sarà il papato odierno? Chi non vede la distanza che li separa? Un papa che oggigiorno si consacrasse alla predicazione sarebbe giudicato un fenomeno, aver cure disciplinari, assumere la responsabilità della Chiesa, avere una qualche mansione spirituale? Di questo non si parla. In realtà c'è soltanto mondanità eppure i Romanisti lodano questo labirinto quasi non si potesse immaginare nulla di meglio organizzato.
E le lamentele di san Bernardo, i suoi sospiri nel considerare i vizi del suo tempo! Che dovrebbe dire se vedesse ciò che si compie nei tempi nostri in cui la malvagità dilaga come nel diluvio?
Si potrebbe trovare maggiore spudoratezza, mi domando, di quella che pretende voler giustificare ostinatamente, come santa e divina, una condizione unanimemente riprovata da tutti i pastori antichi, non solo, ma valersi abusivamente della testimonianza di quelli per mantenere oggi ciò che fu loro del tutto sconosciuto? Posso ammettere che al tempo di san Bernardo la situazione fosse già degenerata al punto che non vi sia gran differenza tra la condizione attuale e quella dei suoi tempi; sono però privi di pudore e di vergogna quelli che pretendono giustificare la condizione attuale del papato valendosi di san Leone e san Gregorio Non diversamente agirebbe chi, volendo giustificare l'imperialismo monarchico, lodasse la situazione antica della repubblica romana, si valesse cioè del valore della libertà per magnificare la tirannia.
23. Quand'anche però concedessimo loro tutto quanto è stato detto sin qui, non avrebbero ottenuto ancora nulla. Poiché riproponiamo il problema in una forma nuova contestando che sussista a Roma una Chiesa in grado di adempiere ciò che Dio ha dato a san Pietro e un vescovo capace, in qualche modo, di assumere la responsabilità di questa carica. Perciò, quand'anche risultassero vere le tesi che abbiamo più sopra refutato: che Pietro sia stato costituito per bocca di Cristo capo della Chiesa universale, abbia trasmesso alla Sede romana questa dignità, tutto questo sia anche confermato dalla Chiesa antica e da una lunga tradizione, anzi tutti abbiamo sempre, unanimemente, riconosciuto al Papa di Roma giurisdizione sovrana, ed egli sia stato giudice di tutte le cause e di tutti gli uomini della terra, non essendo egli stesso sottoposto al giudizio di alcuno; quando avessi, dico concesso tutto questo e molto più se lo vogliono, pure affermo che nulla di tutto questo si può verificare se a Roma non c'è una Chiesa e un vescovo. Dovranno ammettere, lo vogliano o no, che Roma non può essere madre delle altre Chiese qualora non sia lei stessa Chiesa, nessuno può essere principe dei vescovi quando non sia lui stesso vescovo. Vogliono la Sede apostolica a Roma? Mi dimostrino che vi sussiste un vero e legittimo apostolato; vogliono che quivi risieda il sommo prelato del mondo? Mi dimostrino che c'è un vero vescovo. Come potranno offrirci una qualche forma o apparenza di Chiesa? Certo lo pretendono e sempre si sciacquano la bocca con questo argomento ma, per parte mia, replico che una Chiesa ha dei segni a cui si deve riconoscere, e dire "vescovato "significa alludere ad una mansione precisa. Il problema non concerne ora il popolo della Chiesa, ma la forma di governo che sempre deve risultare nella Chiesa. Dove è ora la forma del ministero quale fu istituito da Cristo? Ci si ricordi quanto detto più sopra riguardo all'ufficio di prete e vescovo. Se riconduciamo l'ufficio dei cardinali a questa norma, cioè all'istituzione di nostro Signore, dobbiamo ammettere che sono tutt'altro che preti. Il Papa? Sarei curioso di sapere che cosa abbia in comune con un vescovo. L'elemento fondamentale della carica vescovile consiste nella predicazione della parola di Dio al popolo; il secondo, affine, riguarda l'amministrazione dei sacramenti, il terzo consiste nell'ammonire, nell'esortare, correggere mediante scomunica quelli che sbagliano. Quale papa si occupa di questo? Anzi, fa soltanto finta di occuparsene? Mi rispondano dunque i suoi adulatori come possiamo considerarlo vescovo visto che non dà la minima prova di volersi interessare al suo ufficio sia pure con il dito mignolo.
24. Un vescovo non è un monarca. Un monarca infatti quand'anche non assolva il suo compito conserva nondimeno il titolo e la carica reale. Nel valutare un vescovo invece si considerano le mansioni che nostro Signore ha affidato a tutti i vescovi, che devono essere permanentemente in vigore. Risolvano perciò i Romanisti il problema posto in questi termini: il loro papa non può essere sovrano fra i vescovi senza essere lui stesso vescovo, è questo secondo punto che devono dimostrare se vogliono farci accettare il primo. E come potranno farlo? Non solo mancano al Papa le caratteristiche di un vescovo, ma, anzi, ha tutte quelle contrarie. Mi trovo a questo punto in grande imbarazzo, perché, Dio mio, da dove cominciare? Dalla dottrina o dai costumi? Che dire, che passare sotto silenzio, quando smettere? Dico solo questo: il mondo è oggi pieno di dottrine false e perverse, ripieno di ogni specie di superstizione, accecato da tanti errori, immerso in tale idolatria e non c'è uno solo di questi mali che non sia uscito dalla Sede romana o, per lo meno, vi abbia trovato appoggio. Il motivo per cui i papi si dimostrano così furiosamente contrari alla dottrina dell'evangelo, vedendola oggi rimessa in vigore, e il fatto che impegnino tutte le loro forze a distruggerla, incitino re e prìncipi a perseguitarla è motivato dalla constatazione che il loro regno va chiaramente in rovina quando l'Evangelo è accolto. Leone è stato crudele per natura; Clemente incline a spargere sangue umano; Paolo oggi ancora portato da una rabbia disumana. Non è però il solo temperamento che li spinge a contrastare la verità, quanto piuttosto la constatazione che è questo il solo mezzo per garantire la loro tirannia. Non sono in grado di sopravvivere se non distruggendo Gesù Cristo; Si sforzano perciò di distruggere l'Evangelo perché la loro stessa esistenza è in gioco. Che dunque? Dovremmo pensare che la Sede apostolica si trova quivi dove non riscontriamo altro che orribile apostasia? Dovremmo ritenere vicario di Cristo colui che nel perseguitare rabbiosamente l'Evangelo si rivela apertamente come l'Anticristo? Dovremmo considerare successore di Pietro uno che si dà, da fare per annientare Cl. Ferro e Cl. Fuoco tutto ciò che Pietro ha edificato? Giudicheremo capo della Chiesa colui che la fa a pezzi, l'ha strappata a Gesù Cristo suo unico capo riducendola ad un tronco mutilato? Ammettiamo che Roma sia stata anticamente madre di tutte le Chiese, ha però cessato di esserlo da quando ha cominciato a diventare la sede dell'anticristo.
25. Alcuni ci giudicano eccessivamente critici e paradossali, definendo il Papa "anticristo "; non riflettono però al fatto che questa accusa coinvolge lo stesso san Paolo, seguendo il quale ci esprimiamo in questi termini, anzi con le cui parole noi parliamo. Affinché nessuno replichi che riferiamo impropriamente al papato parole di san Paolo, che in realtà significano altro, dimostrerò brevemente che non si possono intendere altrimenti che riferite proprio al papato.
San Paolo afferma che l'Anticristo sarà seduto nel tempio di Dio (2 Ts. 2.4). In un altro testo lo Spirito Santo dichiara che il regno di quello sarà caratterizzato da un parlare arrogante e da bestemmie contro Dio (Da 7.25). Da questo deduciamo che si tratta di una tirannia sulle anime piuttosto che sui corpi, attuata contro il regno spirituale di Cristo. In secondo luogo questa tirannia è di natura tale da non abolire il nome di Cristo e della sua Chiesa ma, piuttosto, nascondendosi all'ombra di Gesù Cristo e mascherandosi sotto le spoglie della sua Chiesa.
Tutte le eresie e le sette che sono esistite fin dall'inizio del mondo appartengono certo al regno dell'anticristo, quando san Paolo però annunzia che si verificherà una apostasia o un sovvertimento, con questi termini intende affermare che quell'abominazione si verificherà quando ci sarà un sovvertimento generale nella Chiesa anche se singoli membri, dispersi qua e là, non cessino per questo di perseverare nell'unità della fede. Quando egli aggiunge che al tempo suo l'anticristo aveva iniziato la sua opera di iniquità in segreto per condurla al compimento in seguito, apertamente, dobbiamo dedurre che tale calamità non poteva essere opera di un uomo solo, né doveva realizzarsi nel corso dell'esistenza di un singolo uomo.
Anzi, poiché egli ci fornisce il metro di giudizio per valutare l'Anticristo, dicendo che sottrae a Dio il suo onore per attribuirlo a se stesso, è di questo indizio che ci dobbiamo valere per smascherare l'Anticristo stesso. Soprattutto quando vediamo che questo orgoglio si spinge al punto da creare nella Chiesa una situazione di disintegrazione generale. È notorio che il Papa ha trasferito spudoratamente alla sua persona ciò che appartiene a Dio solo ed a Gesù Cristo; non sussiste pertanto alcun dubbio che egli sia a capo di questo regno di iniquità e di abominio.
26. Se ne vengano ora i Romanisti a citare l'argomento dell'antichità quasi l'onore della sede potesse sussistere in un sovvertimento di questo tipo, anzi, in una situazione dove non c'è neppure più sede. Eusebio afferma che anticamente Dio trasferì, per giusta vendetta, la Chiesa di Gerusalemme in un'altra città della Siria, detta Pella. Ciò che è stato fatto una volta può essersi verificato spesso. Atteggiamento sciocco e ridicolo è perciò quello di voler vincolare l'onore del primato ad una sede in modo tale che si debba considerare il Papa vicario di Cristo, successore di san Pietro, primo prelato della Chiesa, per il solo fatto che occupa la sede che anticamente era la prima, anche se, in realtà si tratta del nemico mortale di Gesù Cristo, di un avversario fanatico dell'evangelo, del distruttore e dissipatore della Chiesa e del crudele assassino di tutti i santi. Non sto a far notare quale differenza sussista tra la cancelleria papale e un legittimo ordine ecclesiastico quantunque questo solo punto sarebbe di per se sufficiente a risolvere tutto il problema. Nessuna persona di buon senso farà consistere l'ufficio vescovile in piombo in bolle, e ancor meno in questa fucina di attività truffaldine e di astuzie in cui si vuol far consistere l'intero governo spirituale del Papa. Giustamente è dunque stato detto da qualcuno che la Chiesa romana, di cui fanno menzione i testi antichi, si sia, da lungo tempo, mutata in corte romana.
Non faccio riferimento ai vizi delle persone ma illustro semplicemente il fatto che il papato si deve ritenere categoricamente contrarlo al governo della Chiesa.
27. Passiamo ad esaminare gli individui? Dio solo sa che razza di vicario di Cristo andiamo ad incontrare, e tutti lo conosciamo. Potremmo considerare Giulio, Leone, Clemente e Paolo, colonne della fede cristiana, primi dottori della religione, sapendo che di Gesù Cristo ricordano solo quello che hanno imparato alla scuola di Luciano? Perché nominarne solo due o tre quasi sussistessero dubbi riguardo alla fede cristiana che il Papa e l'intero collegio dei cardinali hanno già da lungo tempo professato e professano tuttora?
Il primo articolo della loro teologia è che non c'è alcun Dio. Il secondo che quanto è scritto e predicato riguardo a Gesù Cristo non e che menzogna e inganno; il terzo che il contenuto della Scrittura riguardo alla vita eterna, la resurrezione della carne, è falso. So bene che non tutti sono di questo avviso, e sono pochi quelli che osano parlare in questo modo; tuttavia è da parecchio tempo che a questo si riduce il Cristianesimo confessato dai papi e il fatto è arcinoto a tutti quelli che hanno una qualche dimestichezza con Roma. I teologi romanisti tuttavia non mancano di ribadire nelle loro scuole e pubblicare nelle loro Chiese che al Papa è stato conferito il privilegio dell'infallibilità in quanto nostro Signore disse a san Pietro: "Ho pregato per te affinché la tua fede non venisse meno " (Lu 22.2). L'unico vantaggio che traggono da quei spudorati discorsi è il fatto che tutti capiscono che si sono spinti con incredibile audacia sino al punto di non temere Dio e non avere vergogna degli uomini.
28. Ammettiamo che l'empietà dei papi, di cui ho detto, risulti sconosciuta, in quanto non è stata diffusa né con sermoni, né con pubblicazioni, ma solo manifestata in privato, nei loro appartamenti o a tavola; per lo meno non sono saliti sul pulpito per renderla nota a tutti. Se vogliamo però ritenere valido il loro privilegio deve cancellarsi dall'elenco dei papi, Giovanni 22che ha pubblicamente affermato le anime essere mortali e perire con il corpo sino all'ultimo giorno. La prova evidente del fatto che la cattedra con tutte le sue gambe era caduta e rovesciata è dato dal fatto che nessun cardinale si è opposto al suo errore; la sola facoltà teologica di Parigi fece pressione sul re perché lo costringesse a smentire le sue affermazioni; e il re fece proclamare a suon di tromba che nessuno dei suoi sudditi si dovesse considerare in comunione con lui qualora non si ravvedesse da quell'errore; il Papa fu perciò costretto a far marcia indietro e ritrattarsi come narra maestro Giovanni Gersone.
Questo esempio ci dispensa dal discutere più avanti con i nostri avversari riguardo alle affermazioni che la Sede romana, ed i papi che vi si trovano, non possano errare in quanto fu detto a san Pietro: ho pregato per te affinché la tua fede non venga meno. Indubbiamente il caso che abbiamo menzionato, quello cioè di Giovanni 22, dimostra in modo eloquente che non tutti i successori di san Pietro sono stati san Pietro. L'argomento loro risulta così puerile che non merita risposta. Se vogliono infatti riferire ai successori di san Pietro tutto ciò che fu detto di lui, ne conseguirà che tutti i papi sono Satana visto che nostro Signore Gesù gli disse: "Ritirati, Satana, tu mi sei di scandalo " (Mt. 16.23). È infatti altrettanto lecito citare questo testo quanto il testo precedente.
29. Non prendo piacere a dire sciocchezze, come loro, o a cavillare in modo ridicolo, ritorno perciò al nostro tema iniziale. Vincolare Gesù Cristo e la sua Chiesa ad un luogo determinato, in modo tale che chiunque governi qui, fosse il Diavolo in persona, debba necessariamente essere considerato vicario di Cristo e capo della Chiesa, in quanto si tratta della sede in cui fu anticamente san Pietro, non è solo empietà che disonora Gesù Cristo, ma sciocchezza grossolana e contraria al buon senso comune. Già da tempo, abbiamo detto, i papi sono senza dio e senza coscienza, quando non diventano nemici mortali della fede cristiana. Non sono dunque i vicari di Cristo in virtù della sede più di quanto un idolo sia Dio per il solo fatto di essere collocato nel santuario di Dio.
Se trasferiamo il problema al campo dei costumi, siano i papi stessi a rispondere. In che li dobbiamo considerare vescovi? In primo luogo fingendo di non vedere o approvando segretamente il tenore sregolato della vita romana a tutti noto, agiscono in modo contrario all'ufficio di buoni vescovi, che debbono invece mantenere il popolo in disciplina. Non voglio essere severo al punto da caricarli delle colpe altrui; è un fatto però che essi stessi e le loro famiglie, unitamente a tutto il collegio cardinalizio e a tutta la banda del loro clero, sono dediti ad ogni sorta di azioni impure e malvagie, ad ogni delitto e turpitudine sì da rassomigliare più a mostri che a uomini, sta a dimostrare che sono tutto fuorché vescovi.
Nessun timore che illustri più ampiamente le loro infamie! Già mi dispiace di aver troppo a lungo diguazzato in un fango così puzzolente e temerei offendere le orecchie delle persone pudiche ed oneste. Penso aver dimostrato in modo più che provante la mia tesi: quand'anche Roma sia stata anticamente a capo di tutte le Chiese non è oggi neppur degna di esser menzionata come il dito mignolo.
30. Riguardo a quelli che si chiamano cardinali mi riempie di stupore il fatto che siano improvvisamente giunti a tanta dignità. Al tempo di san Gregorio questo titolo competeva ai soli vescovi. Quando egli infatti parla di cardinali non allude ai preti di Roma ma solo ai vescovi di una qualche sede, cosicché "prete cardinale "non ha nei suoi scritti altro significato che: "vescovo ". Non mi risulta che questo titolo sia stato usato prima né in questo né in altro significato. Per quanto ci è dato sapere, però, i preti di Roma sono stati nel passato molto inferiori ai vescovi, mentre ora li precedono di gran lunga. È nota la sentenza di sant'Agostino: "quantunque in base ai titoli onorifici in uso nella Chiesa il grado di vescovo sia maggiore del prete, tuttavia Agostino è inferiore a Girolamo in molte cose ". Egli si rivolge, notiamo, a un prete romano senza far distinzione fra lui e tutti gli altri preti, considerandoli invece tutti inferiori ai vescovi. Questa norma è stata sempre osservata, cosicché quando il vescovo di Roma inviò al sinodo di Cartagine due legati di cui uno era prete, questi fu posto a sedere all'ultimo rango.
Non occorre risalire tanto lontano; possediamo gli atti del concilio presieduto da san Gregorio in cui i preti della Chiesa di Roma risultano seduti all'ultimo posto e votano a parte; i diaconi non hanno neppur il diritto di voto. È chiaro che i preti romani non avevano in quel tempo alcuna funzione specifica all'infuori di quella di coadiuvare il vescovo nella predicazione e nell'amministrazione dei sacramenti. La ruota della fortuna ha girato ed eccoli diventare cugini di re e imperatori. Non c'è dubbio che questa ascesa si sia effettuata poco a poco unitamente a quella del loro capo sino ad arrivare alla sommità del potere, ove si trovano ora, donde però cadranno presto.
31. Mi è sembrato opportuno menzionare, per inciso, anche questo fatto per far veder più chiaramente ai lettori che la Sede romana, nella forma in cui ci si presenta oggi, differisce assai da quella antica a cui falsamente fa riferimento. Quali siano stati nel passato, intendo riferirmi sempre ai sacerdoti romani, non avendo attualmente alcuna carica legittima nella Chiesa, ma solo una vana e frivola apparenza sacerdotale, anzi essendo in ogni cosa il contrario di ciò che dovrebbe essere un prete autentico, deve accadere loro, ed è già accaduto, ciò che san Gregorio dice così spesso: "Affermo, con dolore, che quando il sacerdozio è scaduto in se stesso non si può mantenere a lungo in piedi, con gli altri ". Si è anzi dovuto adempiere in essi ciò che dice il profeta Malachia: "Avete abbandonato la retta via e avete fatto cadere molti, avete violato il patto di Levi, dice il Signore. Per questa ragione ecco vi renderò spregevoli dinanzi a tutto il popolo " (Ma.2.8-9).
Lascio ad ognuno il compito di fare ora le sue considerazioni sull'edificio della gerarchia romana dalle fondamenta alla sommità, l'edificio gerarchico a cui i papisti non hanno scrupoli di sottomettere, con spudoratezza esecrabile, la pura parola di Dio che deve essere onorata da uomini e angeli, in cielo ed in terra.

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Istituzioni della religione cristiana
di Giovanni Calvino (1559)