CAPITOLO 19
LA LIBERTÀ CRISTIANA

1. Dobbiamo ora trattare della libertà cristiana, la cui spiegazione non deve essere tralasciata quando ci si propone di riunire in una breve raccolta un sommario dell'insegnamento evangelico. È indispensabile, poiché se non ne hanno conoscenza, le coscienze osano a stento intraprendere qualcosa, e lo fanno con grande dubbio, spesso con esitazione e intoppi, sempre tremando e vacillando. Osserviamo che è un'appendice della giustificazione, e che ci può essere di grande aiuto per capirne la forza. Anzi, tutti quelli che temono Dio capiranno che il frutto di questo insegnamento è inestimabile, anche se coloro che si fanno beffe di Dio e lo scherniscono ne ridono nelle loro celie poiché, inebetiti dalla loro ubriachezza spirituale, si lasciano andare ad ogni enormità. Questo dunque è il luogo opportuno per trattarne.
Pur avendone, in precedenza, talvolta accennato, era tuttavia utile rimandare a questo capitolo l'intero problema, poiché non appena si menziona in qualche modo la libertà cristiana, subito gli uni allentano la briglia alle loro concupiscenze, gli altri sollevano grandi tumulti se non ci si adopera prontamente a frenare tali spiriti ribelli, che travisano le cose migliori a loro presentate. Infatti gli uni, Cl. Pretesto di tale libertà, rifiutano ogni obbedienza a Dio e concedono ogni licenza alla loro carne; gli altri si indignano e non vogliono sentir parlare di tale libertà, cui attribuiscono la causa del rovesciamento di ogni ordine, di ogni pudore e di ogni discernimento delle cose.
Come ce la caveremo, bloccati in questa strettoia? Non sarebbe meglio tralasciare la libertà cristiana, per ovviare a simili pericoli? Ma, come è stato detto, se non si conosce quella libertà, non si conosce rettamente né Gesù Cristo, né la verità dell'evangelo, né la tranquillità interiore. Al contrario, bisogna far in modo che quella dottrina così necessaria non sia messa da parte né sepolta e che tuttavia siano chiarite le assurde obiezioni che possono esserle mosse.
2. La libertà cristiana, a parer mio, consta di tre elementi.
Le coscienze dei credenti, anzitutto, quando è questione di cercare la certezza della loro giustificazione, si innalzano al disopra della Legge, e dimenticano tutta la giustizia che risiede in essa. Poiché (come è stato precedentemente affermato ) , la Legge non lascia nessuno giusto, o dobbiamo essere esclusi dalla speranza di essere giustificati, o dobbiamo esserne liberati, e a tal punto da non aver alcun riguardo alle nostre opere. Infatti chiunque ritiene di dover portare qualche opera per ottenere giustizia, non ne potrebbe determinare né lo scopo né la misura, ma rimarrebbe al di sotto di tutta la Legge. Quando è questione della nostra giustificazione, dobbiamo rinunciare ad ogni pensiero sulla Legge e sulle nostre opere, per abbracciare la sola misericordia di Dio e distogliere il nostro sguardo da noi stessi, per rivolgerlo soltanto a Gesù Cristo. Il problema non è qui di sapere se siamo giusti ma come, essendo ingiusti e indegni, potremo esser reputati giusti. Se le coscienze vogliono averne una qualche certezza non devono dare alcun peso alla Legge. Non bisogna dedurne che la Legge è superflua ai credenti, poiché essa del continuo li ammonisce, li esorta, li stimola al bene; tuttavia essa non ha posto nelle loro coscienze, di fronte al giudizio di Dio. E poiché queste due cose sono molto diverse, dobbiamo distinguerle accuratamente. Tutta la vita dei cristiani deve essere una meditazione e un esercizio alla pietà, in quanto sono chiamati alla santificazione (Ef. 1.4; 1 Ts. 4.3). Il compito della Legge consiste nell'avvertirli di ciò che devono fare, per incitarli a ricercare santità e innocenza. Ma quando le coscienze si chiedono turbate come potranno avere Dio propizio, che cosa dovranno rispondere e da quale fiducia potranno essere sostenute essendo chiamate a comparire dinanzi al giudizio di Dio, non devono fare i conti con la Legge né preoccuparsi di quel che essa richiede, ma devono avere solo Gesù Cristo dinanzi agli occhi come giustizia, poiché egli supera tutta la perfezione della Legge.
3. Tutta l'argomentazione dell'epistola ai Galati consiste in questo. Si può provare facilmente, in base al modo di ragionare di san Paolo, che coloro che affermano che egli combatte unicamente per la libertà dalle cerimonie, sono dei pessimi esegeti; egli infatti dice che Cristo è stato fatto maledizione per noi, per liberarci dalla maledizione della Legge (Ga 3.13). E ancora, ci ammonisce a conservare la libertà, per mezzo della quale Cristo ci ha liberati, e di non tollerare di essere assoggettati al giogo della servitù. "Ecco "afferma "io Paolo, vi dico che se siete circoncisi, Cristo non vi gioverà a nulla "; e: "Colui che si fa circoncidere è debitore di tutta la Legge e Cristo diventa inutile per lui "; e: "Voi tutti che siete giustificati dalla Legge, siete scaduti dalla grazia " (Ga 5.1). Con tali affermazioni, certamente egli ha in mente qualcosa di più importante della libertà dalle cerimonie.
San Paolo affronta indubbiamente la questione delle cerimonie in questi testi, in quanto polemizza contro i falsi apostoli che tramavano d: ricondurre nella Chiesa cristiana le antiche ombre della Legge, abolite alla venuta di Gesù Cristo. Ma per risolvere tale questione, doveva risalire più in alto, cioè alla vera fonte.
Anzitutto, essendo da queste esteriorità giudaiche oscurata la luce dell'evangelo, egli dimostra che abbiamo in Gesù Cristo una piena rivelazione di tutte le cose che erano raffigurate dalle cerimonie della Legge mosaica.
In secondo luogo, poiché i seduttori, con i quali aveva a che fare, nutrivano il popolo con idee nocive, dicendo cioè che era opera meritoria per acquistare la grazia di Dio, il compiere le cerimonie della Legge, insiste anzitutto su questo punto: che gli uomini non possono acquistare giustizia dinanzi a Dio con nessuna opera, e ancor meno con quel cumulo di cose esteriori.
Similmente indica che mediante la morte di Cristo siamo liberati dalla condanna della Legge (Ga 4.5) , la quale altrimenti permane su tutto il genere umano, affinché gli uomini trovino riposo con piena sicurezza soltanto in Cristo. Questo argomento si addice al punto che stiamo trattando. Infine, san Paolo mantiene la libertà delle coscienze affermando che non sono tenute ad osservare cose indifferenti.
4. Il secondo elemento della libertà cristiana, che deriva dal precedente, è questo: essa fa sì che le coscienze non servano alla Legge come costrette da necessità, ma, liberate dalla Legge, ubbidiscano spontaneamente alla volontà di Dio. Finché esse sono del continuo spaventate e terrorizzate, finché sono sottoposte alla Legge, non potranno mai proporsi di ubbidire volontariamente e con cuore sincero alla volontà di Dio, se prima non hanno ottenuto una tal liberazione. Esemplificheremo in maniera più breve e più chiara lo scopo di questa affermazione. Il comandamento della Legge è che amiamo Dio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, con tutte le nostre forze (De 6.5). Per compiere questo comandamento, bisogna anzitutto che l'anima sia libera da ogni altro pensiero, che il cuore sia purgato da ogni altro desiderio, che tutte le forze vi siano rivolte. Ora, anche coloro che sono più avanti nella via di Dio, sono molto lontani da questa meta. Infatti, per quanto amino Dio con buona disposizione d'animo e sincerità di cuore, tuttavia una gran parte del loro cuore e della loro mente è ripiena di affetti carnali che impediscono loro di correre a Dio come si addice. Si sforzano sì di andarvi, ma la carne in parte logora le loro forze, in parte le requisisce per se. Che cosa rimarrebbe loro da fare, quando vedono che non sono in grado di osservare compiutamente la Legge? Vogliono, desiderano, si sforzano, ma non raggiungono la perfezione richiesta. Se considerano la Legge, vedono che tutto quel che potrebbero intraprendere è maledetto. E non bisogna che uno si inganni, pensando che la sua opera non è interamente malvagia perché è imperfetta, e che Dio considera accettevole quel che in essa vi è di buono. Infatti la Legge, richiedendo un amore perfetto, condanna ogni imperfezione, a meno che il suo rigore non venga prima moderato. Colui dunque che ha tanta stima della sua opera la consideri bene, e scoprirà che quel che considerava buono in essa, è trasgressione della Legge, in quanto e imperfetto.
5. Ecco in che modo tutte le nostre opere sono legate alla maledizione della Legge, se esse sono valutate secondo il suo criterio. E in che modo le povere anime potrebbero trovare il coraggio di compiere opere per le quali esse non si aspetterebbero altro frutto che maledizione? D'altra parte se, liberate dal rigoroso comandamento della legge, o piuttosto da tutto il suo rigore, esse si vedono chiamate da Dio con paterna dolcezza, allora lo seguiranno laddove egli le vorrà condurre, con cuore gioioso e franco.
Insomma, coloro che sono prigionieri nei lacci della Legge, sono simili ai servi cui il padrone ordina ogni giorno certi compiti; essi penserebbero di non aver fatto nulla e non oserebbero presentarsi dinanzi al padrone se non avessero eseguito perfettamente tutto quel che è stato loro ingiunto. Ma i figli, trattati dal padre con maggior libertà e dolcezza, non temono di presentargli le loro opere fatte male e solo a metà e perfino con qualche difetto, confidando che la loro obbedienza e il loro buon volere gli sarà gradito, ancorché non abbiano compiuto quel che egli voleva. Dobbiamo dunque essere simili ai fanciulli, senza dubitare che il nostro ottimo e buon Padre considera graditi i nostri servizi, per quanto imperfetti e corrotti; e lo conferma attraverso il Profeta: "Perdonerò loro "dice "come il padre ai figli che lo servono " (Ma.3.17) , testo in cui il termine "perdonare "è inteso come sopportare benignamente, passando sopra le colpe, in quanto egli tiene conto anche del servizio.
Questa certezza ci è necessaria, senza di essa lavoreremmo invano in ogni campo. Infatti Dio non ritiene di essere onorato dalle nostre opere, se non sono compiute in suo onore. E come potremmo compierle in suo onore, fra tali timori e dubbi, non sapendo se egli ne è offeso e onorato?
6. È il motivo per cui l'autore dell'epistola agli Ebrei riferisce alla fede tutte le buone opere degli antichi padri, e determina il valore di quelle in base alla fede (Eb. 11.2.17). Abbiamo un testo significativo concernente questa libertà, nell'epistola ai Romani, dove san Paolo conclude che il peccato non ci deve dominare, dato che non siamo più sotto la Legge ma sotto la grazia (Ro 6.12). Infatti esorta i credenti affinché il peccato non regni nel loro corpo mortale, e che non diano le loro membra quali strumenti di iniquità al peccato ma si votino e dedichino a Dio come risuscitati dai morti, e diano le loro membra come strumenti di giustizia a Dio; costoro, però, avrebbero potuto obiettare che portano ancora con se la loro carne piena di concupiscenze e che il peccato abita in loro; annuncia perciò questa consolazione, che deduce dalla libertà dalla Legge: sebbene i credenti non sentano ancora il peccato spento in loro e la piena vita della giustizia, tuttavia non si devono rattristare e perdere d'animo come se Dio fosse adirato con loro per questi residui di peccato, visto che la grazia di Dio li libera dalla Legge, affinché le loro opere non siano più esaminate con quel criterio. Ma coloro che ne deducono che si può ben peccare, dal momento che non siamo più sotto la Legge, possono capire che questa libertà non appartiene loro affatto, poiché il suo fine è di incitarci e indurci al bene.
7. Il terzo aspetto della libertà cristiana consiste nel non farci dinanzi a Dio problemi di coscienza per le cose esteriori, e di per se indifferenti, che possiamo fare o tralasciare, indifferentemente. Anche la conoscenza di tale elemento della libertà ci è molto necessaria. Infatti, se ci viene meno, le nostre coscienze non avranno mai riposo, e saranno senza fine immerse nella superstizione. Molti sono oggi d'avviso che non sia opportuno sollevare una disputa intorno alla libertà di mangiare carne, all'osservanza dei giorni, all'uso dei vestiti e a simili quisquilie, come dicono. Queste cose hanno più importanza di quanto si pensi comunemente. Infatti quando le coscienze vi sono imbrigliate e legate, esse entrano in un labirinto infinito ed in un profondo abisso, da cui non è loro facile, in seguito, uscire. Se qualcuno comincia a chiedersi se gli è lecito servirsi del lino per le lenzuola, le camicie, i fazzoletti, i tovaglioli, poi non saprà più se gli è lecito servirsi della canapa; infine esiterà perfino a servirsi della stoppa. Comincerà a pensare fra se se non gli è possibile mangiare senza tovagliolo e fare a meno dei fazzoletti. Se qualcuno comincia a pensare che un cibo un po' più delicato degli altri non è permesso, finirà per non osare, in coscienza e dinanzi a Dio, mangiare né pane né cibi comuni, in quanto gli si presenterà sempre la domanda se non sarebbe possibile mantenersi in vita con cibi più ordinari. Se si fa scrupolo di bere vino buono, non oserà in seguito bere, con buona pace della sua coscienza, di quello fermentato o alterato all'aria e neanche un'acqua migliore o più chiara delle altre; infine sarà condotto al punto di considerare gran peccato il camminare su un fuscello.
La coscienza non affronta in questo caso un problema di poco conto; il dubbio è se piace a Dio che ci serviamo o non ci serviamo di tali cose: la sua volontà deve infatti precedere tutti i nostri proponimenti e le nostre azioni. Necessariamente gli uni saranno gettati per disperazione in un vortice che li inabissa; gli altri, dopo aver respinto e cacciato ogni timor di Dio, vanno verso la rovina, poiché non vedono la via. Tutti coloro che sono tormentati da tali dubbi, dovunque si volgano, hanno sempre dinanzi a se uno scandalo di coscienza.
8. So bene, dice san Paolo, che non c'è nulla di impuro se non per colui che ritiene impura una cosa, la quale per lui è impura (Ro 14.14). Con queste parole, egli sottomette tutte le cose esteriori alla nostra libertà, purché ne abbiamo piena coscienza di fronte a Dio. Se qualche superstizione però ci causa scrupolo, le cose che erano pure di per se, diventano per noi impure. Perciò, poco oltre dice: "Beato colui che non condanna se stesso in quello che approva; ma colui che si fa scrupolo per una cosa, se la fa contro la sua convinzione, è condannato in quanto non la fa con fede; tutto quel che non proviene da fede è peccato " (Ro 14.22.23).

Coloro che, preoccupati da simili interrogativi, vogliono tuttavia mostrarsi arditi e coraggiosi, osando tutte queste cose contro le loro coscienze, non si allontanano in tal modo da Dio? D'altra parte, coloro che sono toccati più da vicino dal timor di Dio, se costretti a fare molte cose contro la loro coscienza, sono spaventati da molti scrupoli e finiscono per venir meno. Tutti coloro che si servono delle cose o con molto ardimento, contro la loro coscienza, o con timore e confusione, non ricevono affatto i doni di Dio con azioni di grazia; queste sole, come attesta san Paolo, santificano quei doni per il nostro uso (1 Ti. 4.4.5). Intendo parlare di una azione di grazia procedente da un cuore che riconosce la bontà e la generosità di Dio nei suoi doni. Infatti molti di loro capiscono bene che le cose, di cui si servono, sono beni di Dio, e lodano Dio nelle sue opere, ma se non ritengono che esse siano loro date da Dio, in che modo gli renderebbero grazie come al loro benefattore?
Vediamo insomma a che scopo tende questa libertà: a che possiamo, senza scrupolo di coscienza o turbamento di spirito, rivolgere i doni di Dio all'uso per cui ci sono stati dati, e che le nostre anime possano, con tale fiducia, avere pace e riposo con Dio e riconoscere la sua generosità verso di noi. Questo include tutte le cerimonie la cui osservanza è libera, onde le coscienze non siano vincolate ad osservarle per necessità, ma sappiano che il loro uso è sottoposto al loro discernimento, in base a quel che è opportuno per l'edificazione.
9. Bisogna notare attentamente che la libertà cristiana in tutte le sue parti è qualcosa di spirituale, la cui forza consiste interamente nel pacificare con Dio le coscienze dubbiose, sia che si tormentino dubitando della remissione dei loro peccati, sia che provino ansia e timore, chiedendosi se le loro opere imperfette e contaminate dalle macchie della carne sono gradite a Dio, sia che si sentano perplesse circa l'uso delle cose indifferenti. Inoltre, è fraintesa da coloro che o se ne vogliono valere per giustificare le cupidigie della loro carne onde abusare a loro piacimento dei doni di Dio, o pensano di non averla se non la usurpano davanti agli uomini non avendo, nell'uso che ne fanno, alcun riguardo per la debolezza dei loro fratelli.
Nel primo caso, si commettono oggi grandi sbagli; infatti pochi sono coloro che, avendo di che vivere in modo sontuoso, non prendano piacere in banchetti, in vestiti, in edifici di aspetto grandioso e di lusso smodato, rallegrandosi di essere, per questo, oggetto di considerazione fra la gente, e trovandosi a loro agio nella magnificenza. E tutto ciò viene ammesso e scusato Cl. Pretesto della libertà cristiana. Dicono che sono cose indifferenti, e lo ammetto, per coloro che se ne servono con indifferenza; ma quando sono ricercate con avidità, messe in mostra con ostentazione e orgoglio, utilizzate in modo disordinato, sono contaminate da tali peccati.
Le parole di san Paolo che definiscono molto bene le cose indifferenti suonano così: "Tutto è puro per quelli che son puri; ma per i contaminati ed increduli nulla è puro, poiché le loro coscienze e le loro menti sono contaminate " (Tt 1.15). Perciò sono maledetti i ricchi, in quanto trovano ora la loro consolazione, sono sazii, ridono, dormono in letti d'avorio, uniscono beni a beni, rallegrano i loro banchetti con arpe, liuti, tamburi e vino (Lu 6.24; Am 6.1.6; Is. 5.8). Certo l'avorio, l'oro e le ricchezze sono cose buone, create da Dio, non solo permesse ma perfino destinate ad essere usate dagli uomini; inoltre, in nessuno luogo è proibito ridere, o saziarsi, o acquistare nuovi beni, o dilettarsi con strumenti musicali, o bere vino. Questo è vero; ma quando qualcuno possiede abbondanza di beni, se si seppellisce nelle delizie, se inebria la sua mente ed il suo cuore nei piaceri che ha dinanzi e ne cerca di sempre nuovi, si allontana decisamente dall'uso santo e legittimo dei doni di Dio.
Tolgano dunque di mezzo la loro malvagia cupidigia, il superfluo che suona oltraggio, la loro vana pompa e arroganza, per usare dei doni di Dio con una coscienza pura. Quando avranno ridotto i loro cuori ad una tal sobrietà, avranno la regola del retto uso. Se questa misura vien meno, anche i piaceri più comuni e di poco conto oltrepasseranno il limite. Infatti è vero il detto che sotto una stoffa grigia o ruvida batte spesso un cuore di porpora e, d'altra parte, sotto la seta e il velluto è talvolta nascosto un cuore umile.
Pertanto ciascuno viva nella sua condizione: in povertà, mediocrità o ricchezza; in modo tale, tuttavia, che tutti riconoscano di essere nutriti da Dio per vivere, non per rimpinzarsi di piaceri; e capiscano che la legge della libertà cristiana consiste in questo, se hanno imparato, con san Paolo, ad accontentarsi di quel che è loro offerto e sanno sopportare umiliazioni ed onori, fame e abbondanza, povertà ed opulenza (Fl. 4.12).
10. Il secondo sbaglio, di cui abbiamo già parlato, è frequente in molti: come se la loro libertà non fosse integra e totale qualora non avesse gli uomini a testimoni, costoro la usano senza prudenza né discernimento; e con questo uso sconsiderato, offendono spesso i loro fratelli più deboli.
Se ne vedono oggi taluni che pensano di non tutelare abbastanza la loro libertà se non ne prendono possesso mangiando carne il venerdì. Non li rimprovero perché mangiano carne: ma bisogna cacciare dal nostro spirito la falsa opinione che non si ha libertà se non la si sbandiera a ragione e a torto. Dobbiamo infatti considerare che con la nostra libertà non acquistiamo nulla dinanzi agli uomini, ma verso Dio, e che essa consiste tanto nell'astenersi quanto nel far uso di qualcosa. Se qualcuno possiede questo vero discernimento, gli è indifferente, di fronte a Dio, mangiare carne o uova, essere vestito di rosso o di nero. Ormai la coscienza è liberata, essa a cui era dovuto il frutto di quella libertà. Quand'anche si astenesse dal mangiare carne per tutto il resto della sua vita, e usasse un unico colore nei suoi vestiti, non per questo sarebbe meno libero. Ed è libero anche nel fatto che se ne astiene con libera coscienza. Ma il tipo di persone di cui abbiamo parlato, sbaglia pericolosamente in quanto non tiene conto della debolezza del fratello, che deve essere da noi tutelata al punto che dobbiamo evitare di compiere con leggerezza qualcosa di cui si possa scandalizzare.
Ma qualcuno dirà che è opportuno talvolta dimostrare agli uomini la nostra libertà. Riconosco anche questa esigenza: ma bisogna mantenersi con cautela nella giusta misura, senza dimenticare di aver cura dei deboli, che il nostro Signore ci ha raccomandati in modo particolare.
2. Diciamo dunque ora qualcosa riguardo agli scandali: come si possono discernere, quelli che si devono evitare e quelli che si possono trascurare, affinché ciascuno sappia decidere di quale tipo di libertà si può valere dinanzi agli uomini.

Dobbiamo dunque tener presente la distinzione abituale, la quale parla di un dare scandalo e di un scandalizzarsi, visto che questa distinzione ha una testimonianza evidente nella Scrittura e ne esprime assai bene il contenuto.
Se taluno dunque, per leggerezza irresponsabile o per temerità indiscreta fa, in tempo e luogo inopportuno, qualcosa che scandalizzi gli ignoranti e i deboli, si potrà dire che ha dato scandalo, in quanto, per colpa sua, tale scandalo è stato sollevato. In genere si può dire che si dà scandalo per qualcosa quando la colpa proviene da colui che compie quella tal cosa.
Si parlerà di scandalizzarsi quando una cosa, che non era compiuta né con intemperanza né con indiscrezione, viene tuttavia considerata, dalla cattiveria e dalla malvagità degli altri, occasione di scandalo. In questo caso lo scandalo non era dato, ma i malvagi lo vedono senza motivo.
Il primo genere di scandali offende soltanto i deboli; il secondo, coloro che Cl. Loro rigore e il loro pessimismo hanno continuamente motivo di criticare e rimproverare. Perciò definiremo il primo: scandalo dei deboli; l'altro: scandalo dei farisei, e avremo cura di temperare e di mediare l'uso della nostra libertà in modo da aver riguardo all'ignoranza dei nostri fratelli più deboli ma non al rigore dei farisei.
San Paolo sottolinea esplicitamente, in vari passi, quanto riguardo dobbiamo avere per i deboli: "Accogliete "dice "i deboli nella fede": "Non giudichiamoci più l'un l'altro, ma cerchiamo piuttosto di non offendere e di non essere occasione di caduta per i nostri fratelli " (Ro 14.1.13) , e varie altre parole che tendono al medesimo fine, e che val meglio leggere direttamente nel testo che riportare qui. Il loro succo è che noi, che siamo forti, dobbiamo aver pazienza con i deboli e non compiacere a noi stessi, ma compiacere al prossimo, nel bene, a scopo di edificazione (Ro 15.1.2). In un altro passo, ribadisce: "Guardatevi dal trasformare la vostra libertà in offesa per coloro che sono deboli " (1 Co. 8.9); "Mangiate di tutto quel che si vende in macelleria, senza scrupoli di coscienza: ma lo dico per la vostra coscienza, non per quella degli altri; insomma, comportatevi in modo tale da non causare scandalo né ai Greci, né ai Giudei, né alla Chiesa di Dio " (1 Co. 10.25.32). E in un altro passo: "Siete chiamati a libertà, fratelli; non affidate la vostra libertà alla carne ed ai suoi desideri, ma servite l'uno all'altro per mezzo dell'amore " (Ga 5.13).
La questione si pone in questi termini: la nostra libertà non ci è data contro il nostro prossimo che è debole, a cui la carità ci sottomette e di cui ci rende servitori in tutto e per tutto, ma ci è data affinché, avendo pace con Dio nelle nostre coscienze, viviamo nella pace anche con gli uomini.
Per quanto riguarda l'offendere i farisei, le parole del nostro Signore ci indicano quale atteggiamento dobbiamo assumere: egli ci dice di trascurarli e non tenerne conto, poiché sono ciechi e guidano dei ciechi (Mt. 15.14). I discepoli lo avevano avvertito che quelli si erano scandalizzati del suo insegnamento: egli risponde che bisogna trascurarli, senza dar peso al fatto che si sono scandalizzati.
12. La questione presenta, tuttavia, degli aspetti ancora dubbi se non abbiamo chiaro chi dev'essere considerato debole e chi fariseo; senza questa distinzione non vedo come potremmo usare della nostra libertà in mezzo agli scandali, dato che l'uso di essa sarebbe sempre molto pericoloso.
Mi pare che san Paolo determini con chiarezza, sia con l'insegnamento sia con l'esempio, in qual misura dobbiamo moderare la nostra libertà o seguirla a rischio di scandalizzare. Prendendo con se Timoteo, lo circoncise, ma non acconsentì mai a circoncidere Tito (At. 16.3; Ga 2.3). Questo perché le situazioni erano diverse, non perché ci sia stato mutamento di posizione o di volere. Nella circoncisione di Timoteo, san Paolo, benché libero da ogni cosa, si è fatto servo di tutti: si è fatto giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che erano sotto la Legge si è comportato come se fosse sotto la Legge, per guadagnare coloro che sono sotto la Legge; con i deboli si è fatto debole per guadagnare i deboli; si è fatto tutto a tutti per salvarne molti (1 Co. 9.19.22) , come egli stesso ha scritto. Valido esempio di qual sia il limite della nostra libertà: quando, cioè ce ne possiamo indifferentemente astenere, con qualche risultato.
Al contrario, san Paolo dichiara in questi termini qual era il suo fine nel rifiutare costantemente di circoncidere Tito: "Anche Tito che era con me, benché greco, non fu costretto ad essere circonciso, a causa di taluni falsi fratelli introdottisi fra noi per spiare la libertà che abbiamo in Gesù Cristo, Cl. Fine di ridurci in servitù. Noi non abbiamo ceduto loro neanche un istante, né ci siamo loro sottomessi, affinché la verità dell'evangelo rimanesse ferma fra noi " (Ga 2.3.5). È: anche sottolineata qui la necessità di conservare la nostra libertà, qualora essa venga scossa nelle coscienze deboli dagli iniqui comandamenti di falsi apostoli.
In ogni caso dobbiamo servire alla carità, e aver riguardo all'edificazione del nostro prossimo. "Ogni cosa mi è lecita "dice san Paolo in un altro passo "ma non tutte sono opportune. Ogni cosa mi è lecita, ma non tutte edificano. Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma il bene del suo prossimo " (1 Co. 10.23.24). Nulla è più chiaro né più certo di questa regola: dobbiamo usare la nostra libertà se questa giova all'edificazione del nostro prossimo, ce ne dobbiamo astenere se essa non gli giova.
Taluni fingono di seguire la prudenza di san Paolo astenendosi dall'usare la loro libertà, senza cercare affatto, per mezzo di essa, di giovare alla carità. Per soddisfare il loro riposo e la loro quiete desiderano che ogni menzione di libertà sia sepolta, benché talvolta il servirsene sia permesso e necessario, ad edificazione del nostro prossimo, quanto il limitarla, per il loro bene. Il cristiano deve considerare che Dio gli ha assoggettato tutte le cose esteriori, affinché sia tanto più libero nel compiere quanto ha attinenza con l'amore del prossimo.
13. Tutto ciò che ho insegnato per evitare gli scandali si deve riferire alle cose indifferenti, a quelle cioè che non sono in se né buone né cattive. Quelle che sono necessarie non devono infatti essere tralasciate per timore di qualche scandalo; come la nostra libertà deve essere regolata e sottomessa all'amore per il nostro prossimo, così l'amore deve essere assoggettato alla purezza della fede. È vero che bisogna qui avere particolare riguardo alla carità, ma sempre in modo tale che non si offenda Dio per amore del nostro prossimo.
Non approvo l'intemperanza di coloro che agiscono solo per mezzo di tumulti, e preferiscono strappare violentemente piuttosto che scucire; ma d'altra parte non accetto il punto di vista di coloro che inducono gli altri, Cl. Loro modo di fare, a bestemmiare, dicendo che è necessario far così per non essere di scandalo al prossimo. In tal modo, edificano male le coscienze dei loro simili, soprattutto quando indugiano sempre nello stesso fango, senza far nulla per uscirne. Se è questione di istruire i loro simili con l'insegnamento o con un esempio di vita, dicono che bisogna nutrirli a base di latte, e così facendo li mantengono in convincimenti malvagi e nocivi. San Paolo afferma chiaramente di aver nutrito di latte i Corinzi (1 Co. 3.2); ma se la messa papale fosse stata in uso a quei tempi, avrebbe continuato a sacrificare per dar loro a bere del latte? No, di certo, perché il latte non è veleno. Mentono, dunque, fingendo di nutrire gente che mettono invece crudelmente a morte, sotto l'apparenza di una tal dolcezza. E se anche concedessimo loro che una tal finzione è utile per un certo tempo, fino a quando continueranno ad abbeverare i loro figli di un medesimo latte? Infatti se non crescono mai fino al punto di sopportare un po' di cibo leggero, è chiaro che non sono mai stati nutriti con latte buono.
Due sono le ragioni che mi impediscono ora di combattere per davvero contro tali persone. L'una, che le loro sciocchezze non sono degne di essere respinte, poiché non hanno né gusto né sapore; l'altra, che ho trattato questo argomento in appositi scritti, e non voglio ripetermi. Ma i lettori abbiano per certo questo punto: per quanto il diavolo e il mondo si sforzino con scandali o tramino per distoglierci da quel che Dio ordina o per ritardarci, onde non seguiamo la legge della sua parola, dobbiamo smascherare il tutto, per proseguire agilmente il nostro corso. Inoltre, per quanti pericoli ci minaccino, dobbiamo sentirci liberi di non allontanarci minimamente dall'autorità di Dio, e di non considerare lecito iniziare qualcosa senza che Dio lo permetta, qualunque pretesto scegliamo.
14. Ma poiché le coscienze dei credenti, per il privilegio della libertà che ricevono da Gesù Cristo, sono liberate dai legami e dalla necessaria osservanza delle cose che il Signore ha voluto fossero indifferenti per loro, concludiamo che esse sono affrancate e libere dall'autorità di ogni uomo. Non è opportuno, infatti, o che la lode che Gesù Cristo merita di ricevere per un tale beneficio sia oscurata, o che il risultato ne sia perduto per le coscienze. E non deve essere ritenuta cosa di poca importanza, poiché vediamo che è costata tanto a Gesù Cristo e non è stata acquistata né con oro né con argento, ma Cl. Suo proprio sangue (1 Pi. 1.18). Infatti san Paolo non esita a dire che la morte di Cristo ci diventa inutile se ci sottomettiamo all'autorità degli uomini. Egli non tratta di altro in alcuni capitoli della lettera ai Galati, se non che Cristo è sepolto per noi, anzi annullato, se le nostre coscienze non mantengono fermamente la loro libertà: che certo perderebbero se le si potesse, a piacimento degli uomini, vincolare con leggi e decreti (Ga 5.1.4).
È una verità che merita di esser conosciuta; e perciò richiede una trattazione più ampia. Non appena infatti si parla oggi di gran vociare parte ad opera di sediziosi, parte ad opera di calunniatori, quasi fosse rifiutata e capovolta ogni obbedienza agli uomini.
15. Per rimediare dunque a questo inconveniente, dobbiamo notare che vi sono nell'attività dell'uomo due piani. Uno spirituale, in cui la coscienza è istruita e edotta intorno alle cose di Dio e a quelle attinenti alla pietà; l'altro politico o civile, in cui l'uomo è reso consapevole dei doveri di umanità e civiltà che bisogna mantenere fra gli uomini. Comunemente si parla di giurisdizione spirituale e giurisdizione temporale, termini abbastanza propri con i quali si indica che il primo tipo di governo concerne la vita dell'anima, e il secondo serve per questa vita, non soltanto in vista di nutrire o vestire gli uomini, ma di stabilire alcune leggi, mediante le quali gli uomini possano vivere onestamente e giustamente fra loro. Il primo infatti ha sede nell'interiorità dell'anima; il secondo deve formare e guidare i costumi esteriori. I lettori mi autorizzino dunque a chiamare l'uno regno spirituale e l'altro regno civile o politico.
Avendoli distinti, occorre considerarli indipendentemente, senza confonderli fra loro. Vi sono come due mondi nell'uomo, che possono essere governati da diversi sovrani e da diverse leggi. Questa distinzione ci deve avvertire che quanto l'Evangelo insegna riguardo alla libertà spirituale non deve riferirsi, contro diritto e ragione, al regime terreno, come se i cristiani non dovessero esser soggetti a leggi umane, per il fatto che le loro coscienze sono libere davanti a Dio, o come se fossero esenti da ogni obbedienza secondo la carne perché sono affrancati dallo Spirito.
Anzi, poiché giudicando le leggi che sembrano concernere il regime spirituale ci si può ingannare, è necessario discernere anche fra queste, per sapere quali debbano essere considerate legittime, perché conformi alla parola di Dio, e quali debbano essere respinte.
In merito al regime terreno, ci riserviamo di trattarne in altra sede. Mi dispenso altresì di parlare ora delle leggi ecclesiastiche, perché sarà meglio farlo nel quarto libro, dove si parlerà della potenza della Chiesa. Si consideri dunque concluso questo argomento.
Non ci sarebbe alcuna difficoltà, come ho già detto, se non che parecchi fanno confusione, non discernendo bene fra governo e coscienza, fra giurisdizione esterna, civile e giudizio spirituale, che ha la sua sede nella coscienza. C'è un testo di san Paolo che costituisce la difficoltà maggiore: quando cioè dice che bisogna ubbidire ai magistrati non solo per timore di punizione, ma anche per motivo di coscienza (Ro 13.1.5). Ne consegue che la coscienza è soggetta alle leggi politiche. Se così fosse, tutto quanto abbiamo detto sopra, e diremo in seguito circa il regime spirituale, cadrebbe.
Per sciogliere questo scrupolo, è utile in primo luogo sapere che cos'è la coscienza, e l'etimologia del termine ci può dare qualche indicazione. Infatti, come diciamo che gli uomini sanno quel che il loro spirito ha inteso, e da ciò deriva il termine scienza, così, quando hanno un sentimento del giudizio di Dio, che è per loro come un secondo testimone, che non accetta di seppellire le loro colpe ma le presenta dinanzi al tribunale del sommo giudice e ve le tiene come inchiodate, tale sentimento è detto coscienza. È una cosa intermedia fra Dio e gli uomini, in quanto gli uomini, avendo tale sentimento impresso nel cuore, non possono cancellare mediante l'oblio la conoscenza che hanno del bene e del male, ma quando hanno recato offesa sono perseguiti finché riconoscono la loro colpa. Ed a questo pensa san Paolo, dicendo che la coscienza attesta agli uomini quando i loro pensieri li accusano o assolvono di fronte al giudizio di Dio (Ro 2.15). Una semplice conoscenza potrebbe essere soffocata in un uomo; perciò il sentimento che attira l'uomo al tribunale di Dio è simile ad una guardia datagli per sorvegliarlo e spiarlo, e per scoprire quanto egli nasconderebbe volentieri, se potesse. Ecco da dove è nato l'antico proverbio che la coscienza equivale a mille testimoni. Con un ragionamento simile, san Pietro considera la risposta di una buona coscienza fonte di riposo e di tranquillità di spirito, quando l'uomo credente, fondandosi sulla grazia di Cristo, si presenta liberamente davanti a Dio (1 Pi. 3.21). E l'Apostolo, nella lettera agli Ebrei, dicendo che i credenti non hanno più coscienza di peccato, intende dire che ne sono liberati e assolti, tanto da non sentire più il rimorso che li redarguisce (Eb. 10.2).
16. Pertanto, come le opere si rivolgono agli uomini, così la coscienza ha Dio per meta, cosicché una buona coscienza non è se non una integrità interiore del cuore. A questo proposito san Paolo dice che il compimento della Legge consiste in carità, coscienza pura, fede non finta (1 Ti. 1.5). In un altro passo, mostra in che cosa differisce dal semplice sapere, dicendo che alcuni sono scaduti dalla fede perché s'erano allontanati dalla buona coscienza (1 Ti. 1.19). Con tali parole egli intende che l'onorare Dio è un sentimento profondo, ed il vivere puramente e santamente è zelo autentico.
Talvolta il termine coscienza si riferisce a ciò che concerne gli uomini, come quando san Paolo dice negli Atti che si è sforzato di camminare in buona coscienza sia nei confronti di Dio sia degli uomini (At. 24.16); ma ciò si intende in quanto i frutti esteriori, che ne derivano, giungono fino agli uomini. Ma in senso proprio, come già ho detto, la coscienza ha la sua meta e scopo in Dio.
Perciò diciamo che una legge vincola le coscienze quando crea un obbligo che vincola tutto l'uomo, senza considerare il prossimo, ma come se l'uomo non avesse rapporti che con Dio. Esempio: Dio ci ordina non solo di avere il cuore puro da ogni impurità, ma anche di astenerci da ogni parola malvagia e da dissolutezze che tendono all'incontinenza. Qualora non ci fosse alcun vivente sulla terra, sono tenuto in coscienza ad osservare tale legge. Se dunque mi lascio andare a qualche atto di impudicizia, non commetto peccato solo in quanto do scandalo ai miei fratelli, ma sono colpevole nei riguardi di Dio in quanto ho trasgredito quello che mi aveva proibito fra lui e me.
C'è anche un'altra considerazione riguardo alle cose indifferenti: ce ne dobbiamo astenere in quanto potremmo recare offesa ai fratelli, ma con coscienza libera e franca, come dice san Paolo parlando della carne consacrata agli idoli: "Se qualcuno se ne scandalizza, non mangiarne per motivo di coscienza: non per la tua, ma per quella del tuo prossimo " (1 Co. 10:28.29). Il credente avvertito peccherebbe, scandalizzando il suo prossimo col Suo cibo; ma quantunque Dio gli ordini di astenersi dal mangiare tale carne per amore del suo prossimo e gli sia necessario sottomettersi, non per questo la sua coscienza cessa di essere libera. Vediamo dunque che tale legge non impone sottomissione se non alle opere esteriori, e lascia libera la coscienza.

Istituzioni della religione cristiana
di Giovanni Calvino (1559)
Biblioteca
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