CAPITOLO 13
I DUE ELEMENTI DA CONSIDERARE
NELLA GIUSTIFICAZIONE GRATUITA

1. Dobbiamo, a questo punto, badare a due cose: che la gloria di Dio sia salvaguardata nella sua totalità, e che le nostre coscienze possano aver riposo e sicurezza dinanzi al suo giudizio. Quante volte e con quanta insistenza la Scrittura ci esorta, quando è questione di giustizia, a confessare la lode di Dio. Anche l'Apostolo ci attesta che Dio, conferendoci la giustizia in Cristo, ha voluto mettere in luce la sua (Ro 3.25). Poi aggiunge che lo si dimostra riconoscendo in lui il solo giusto, che giustifica colui che ha fede in Gesù Cristo. Non ci rendiamo forse conto che la giustizia di Dio non è messa abbastanza in luce se non lo riteniamo il solo giusto, che comunica il dono della giustizia a coloro che non l'hanno meritato? Perciò vuole che ogni bocca si chiuda, e che il mondo intero dichiari di essergli debitore; finché l'uomo ha argomenti per giustificarsi, la gloria di Dio ne e di tanto sminuita.
Dio indica, in Ezechiele, che il suo nome è glorificato nella misura in cui riconosciamo la nostra iniquità: "Vi ricorderete delle vostre opere e di tutti i vostri misfatti, dai quali siete stati contaminati, e vi pentirete in voi stessi di tutti i peccati che avete commessi. E allora saprete che sono il Signore, quando vi avrò usato misericordia a causa del mio nome, e non secondo i vostri peccati ed opere malvagie" (Ez. 20.43). Se fa parte della vera conoscenza di Dio il reputare che, abbattuti e sminuiti dalla conoscenza del nostro peccato, Dio ci fa del bene senza che ne siamo degni, perché tentiamo, con nostro grande danno, di sottrarre a Dio anche solo la minima goccia di quella lode di bontà gratuita? E Geremia, affermando che il saggio non si gloria della sua saggezza, ne il ricco delle sue ricchezze, né il forte della sua forza, ma che colui che si gloria si gloria in Dio (Gr. 9.23) , non indica forse che se l'uomo si gloria di se stesso, una parte della gloria di Dio è annullata? Infatti san Paolo si riferisce a questo nel passo (1 Co. 1.30) in cui dice che tutto quel che riguarda la nostra salvezza è stato affidato a Gesù Cristo come in deposito, affinché tutti si glorino in Dio soltanto. Poiché tutti coloro che si illudono di possedere qualcosa di per se, si ergono contro Dio e ne oscurano la gloria.
2. È evidente che non ci gloriamo rettamente in Dio, se non rinunciando alla nostra propria gloria. Anzi deve essere chiaro il principio generale che chiunque si gloria in se, si gloria contro Dio. Infatti san Paolo dice che gli uomini sono sottomessi a Dio solo quando ogni motivo di gloria è loro tolto. Isaia, proclamando che Israele troverà la sua giustizia in Dio, aggiunge che vi troverà anche la sua lode (Is. 45.25). È come se dicesse che il fine per il quale gli eletti di Dio sono giustificati, è che si glorino in lui e non altrove. Come trovare la nostra lode in Dio era detto nella affermazione precedente: aver coscienza del fatto che la nostra giustizia e la nostra forza sono in lui. Osserviamo che non basta una semplice confessione, bisogna che essa sia confermata dal giuramento affinché non ci venga l'idea di poterci sciogliere mediante non so quale umiltà simulata. Né bisogna pensare che uno non si glori quando considera la propria giustizia senza arroganza. Infatti una tal stima non può che generare fiducia in se, e la fiducia in se non può che generare gloria.
Ricordiamoci dunque che quando parliamo della giustizia dobbiamo sempre aver presente questo scopo: che la lode di essa vada interamente e completamente a Dio, poiché per dar prova della sua giustizia, come dice l'Apostolo, ha diffuso la sua grazia su noi, onde essere giusto e giustificante colui che ha fede in Cristo (Ro 3.26). In un altro passo, dopo aver detto che Dio ci ha dato la salvezza per esaltare la gloria del suo nome, riafferma: "Voi siete salvati gratuitamente; ed è per dono di Dio, non già per le vostre opere, affinché nessuno si glori " (Ef. 2.8). E san Pietro, avvertendoci che siamo chiamati alla speranza della salvezza per narrare le lodi di colui che ci ha tratti dalle tenebre alla sua meravigliosa luce (1 Pi. 2.9) , vuole indurre i credenti a cantare soltanto le lodi di Dio, in modo tale che esse impongano silenzio ad ogni presunzione della carne. Insomma, bisogna concludere che l'uomo non si può attribuire un sol briciolo di giustizia senza essere sacrilego; visto che sarebbe come sminuire e abbassare la gloria della giustizia di Dio.
3. Inoltre, se cerchiamo in che modo la coscienza possa trovar riposo e rallegrarsi dinanzi a Dio, ci renderemo conto che questo è possibile soltanto quando egli ci giustifica per sua gratuita benignità. Ricordiamoci sempre dell'affermazione di Salomone: "Chi potrà dire: "Ho pulito il mio cuore, sono purificato dai miei peccati "? " (Pr 20.9). Certo, tutti siamo carichi di infinite impurità. Entrino dunque i più perfetti nella loro coscienza e facciano un bilancio delle loro opere; quale esito avranno? Potranno forse riposarsi e provar allegrezza di cuore, come se avessero pace con Dio? Non saranno piuttosto lacerati da orribili tormenti, sentendo che in loro risiede ogni motivo di condanna, se sono giudicati dalle loro opere? Quando la coscienza si pone dinanzi a Dio, ovvero trova pace e accordo con il suo giudizio, oppure è assalita dai terrori dell'inferno. Non ci giova dunque a nulla discutere della giustizia, a meno che raggiungiamo una giustizia tale per cui l'anima, fondandosi sulla sicurezza di questa, possa presentarsi dinanzi al giudizio di Dio. Quando la nostra anima avrà sufficienti argomenti per comparire dinanzi a Dio senza paura, aspettare e ricevere senza dubbio né timore il suo giudizio, allora potremo dire di aver trovato una autentica giustizia.
Non senza motivo l'Apostolo insiste con tanta forza su questo argomento, e preferisco citare le sue parole piuttosto che trovarne di mie: "Se per mezzo della Legge abbiamo la promessa dell'eredità, la fede è annullata e la promessa è abolita " (Ro 4.14). Egli deduce anzitutto che, se la promessa di giustizia concerne i meriti delle nostre opere o se dipende dall'osservanza della Legge, la fede è soppressa e annullata. Nessuno potrebbe riposare con certezza sulla Legge, dato che è impossibile adempierla pienamente; nessuno, in effetti, vi soddisfa pienamente per mezzo delle sue opere. Ognuno se ne può convincere direttamente, senza cercare altrove delle prove, semplicemente considerando se stesso con occhio oggettivo. Ognuno sarebbe dunque assillato dal dubbio, poi oppresso dalla disperazione, considerando l'enorme fardello di debiti da cui è gravato, e quanto lontano sia dalla condizione propostagli; Questo basterebbe ad opprimere e spegnere la fede. Poiché errare, variare, essere agitato, dubitare, vacillare, essere tenuto nell'incertezza, infine disperare, non significa aver fiducia. Aver fiducia significa, invece, consolidare il proprio cuore in una certezza costante e sicura, ed avere un solido appoggio su cui poter riposare.
4. In secondo luogo, aggiunge, la promessa sarebbe annullata. Se il suo compimento dipendesse infatti dal nostro merito, quando mai saremmo giunti al punto da meritare la grazia di Dio? Anche questa seconda affermazione si può dedurre dall'altra, poiché la promessa non si compirà se non in coloro che l'avranno ricevuta per fede. Se la fede è dunque venuta meno, la promessa non ha più vigore. Perciò otteniamo l'eredità mediante la fede, affinché essa sia fondata sulla grazia di Dio e la promessa sia in tal modo confermata. Essa infatti è salda quando s'appoggia sulla sola misericordia di Dio, in quanto la sua misericordia e la sua verità sono congiunte da un legame perpetuo; cioè tutto quel che il Signore ci promette per sua benignità, lo adempie fedelmente. Perciò Davide, prima di chiedere che la salvezza gli venga data secondo la Parola di Dio, ne stabilisce l'origine anzitutto nella di lui misericordia: "Le tue compassioni e la tua salvezza si spandano su me, secondo la tua promessa! " (Sl. 11976). Qui dobbiamo dunque fermare e fissare profondamente tutta la nostra speranza; non distogliere lo sguardo verso le nostre opere, per riceverne qualche aiuto.
Sant'Agostino dà lo stesso consiglio: "Gesù Cristo "dice "regnerà per sempre nei suoi servitori. Dio lo ha promesso. Dio lo ha detto, e se ciò non basta, Dio lo ha giurato. Essendo la sua promessa stabile dobbiamo confessare senza timore ciò di cui non possiamo dubitare, non già a causa dei nostri meriti ma secondo la sua misericordia ". San Bernardo aggiunge: "I discepoli chiesero a Gesù: "Chi sarà salvato "? Egli rispose loro che una tal cosa era impossibile agli uomini, ma non a Dio. Ecco dunque la nostra fiducia, ecco la nostra unica consolazione, ecco l'intero fondamento della nostra speranza. Ma per quanta certezza abbiamo del suo potere, che diremo del suo volere? Chi può sapere se sarà degno di essere amato o odiato? (Ecclesiaste 9.1). Chi ha conosciuto il volere del Signore, o è stato suo consigliere? (1 Co. 2.16). Su questo punto la fede ci deve venire in aiuto. Bisogna che la verità ci soccorra, onde quel che, di noi, è nascosto presso il Padre ci sia rivelato dallo Spirito; onde il suo Spirito, attestandocelo, ci persuada che siamo figli di Dio; ce ne persuada interpellandoci, giustificandoci gratuitamente per mezzo della fede, la quale è simile ad un legame fra la predestinazione di Dio e la gloria della vita eterna ".
Insomma, dobbiamo concludere che le promesse di Dio non hanno, secondo la Scrittura, alcuna forza e alcun effetto se non sono ricevute da una profonda fiducia del cuore; d'altra parte, sempre secondo la Scrittura, esse sono rese vane se sussiste dubbio o incertezza. E se tali promesse poggiano sulle nostre opere, noi non possiamo che vacillare e tremare. Di conseguenza, o ci è tolta ogni giustizia, o le opere non sono prese in considerazione, per lasciar posto solo alla fede, la cui caratteristica è di chiudere gli occhi e rizzare le orecchie, cioè di essere interamente radicata nella sola promessa di Dio, senza aver riguardo ad alcuna dignità o ad alcun merito dell'uomo.
Si realizza così la bella promessa di Zaccaria secondo cui, quando l'iniquità sarà stata cancellata dalla terra, ognuno chiamerà il suo vicino sotto la sua vigna ed il suo fico (Za. 3.9). Il Profeta vuol significare che i credenti non godranno di vera pace se non dopo aver ottenuto la remissione dei loro peccati. Bisogna infatti capire il linguaggio abituale dei profeti: quando parlano del regno di Cristo, propongono le benedizioni terrene di Dio come immagini atte a rappresentarci i beni spirituali. Cristo è talvolta chiamato "re di pace "o "nostra pace " (Is. 9.5; Ef. 2.14) , perché è lui che dà pace a tutti i turbamenti della coscienza. Se si vuol sapere per quale mezzo, bisogna necessariamente giungere al sacrificio, per mezzo del quale Dio è stato soddisfatto. L'uomo non smetterà mai di tremare in se stesso, finché non si sarà convinto che Dio ci è propizio unicamente attraverso l'espiazione datagli da Cristo, il quale ha portato il peso della sua collera.
Insomma, dobbiamo cercare la pace soltanto negli spaventi e nelle inquietudini di Cristo, nostro redentore.
5. Ma perché valermi di una testimonianza un po' oscura, dal momento che san Paolo afferma ovunque esplicitamente che non vi è alcuna gioia per le coscienze fintantoché non è chiaro che siamo giustificati per fede? (Ro 5.1). Allo stesso tempo spiega da dove proviene una tal certezza: dall'amore di Dio, diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo; come se dicesse che le nostre anime non possono trovar pace finché non siamo pienamente persuasi di essere graditi a Dio. Perciò, in un altro passo, egli esclama da parte di tutti i credenti: "Chi ci separerà dall'amore che Dio ha per noi in Gesù Cristo? " (Ro 8.35). E finché non saremo giunti a quel porto, tremeremo ad ogni soffio di vento; ma se Dio si rivelerà quale nostro pastore, proveremo sicurezza anche nell'oscurità della morte (Sl. 23.4).
Tutti coloro che cianciano che siamo giustificati per fede in quanto, dopo esser stati rigenerati, viviamo giustamente, non hanno mai assaporato la dolcezza di questa grazia, di questa certezza cioè che Dio è loro propizio: di conseguenza non sanno meglio dei Turchi e di tutti gli altri pagani che cosa significhi pregare rettamente. Non c'è vera fede, come dice san Paolo, all'infuori di quella che ci suggerisce di invocare Dio con franchezza, dandogli il nome dolce e amabile di Padre, e che anzi ci apre la bocca perché osiamo gridare a voce alta e chiara: "Abba, Padre ", (Ro 8.15; Ga 4.6). Lo spiega ancor meglio altrove, dicendo che abbiamo l'ardire di accedere a Dio in Gesù Cristo, con fiducia, per la fede che abbiamo in lui (Ef. 3.12). Questo non può derivare dal dono della rigenerazione, perché fino a quando viviamo nella carne esso è imperfetto e soggetto a molti dubbi. È dunque necessario giungere a questo rimedio, che cioè i credenti siano certi che il solo diritto e argomento di cui dispongono per sperare che il regno dei cieli appartenga loro, e di essere gratuitamente considerati giusti, in quanto sono innestati sul corpo di Cristo. La fede non ha in se la potenza di giustificarci o di procurarci grazia dinanzi a Dio, ma essa riceve da Cristo quel che ci manca.
CAPITOLO 14
INIZIO DELLA GIUSTIFICAZIONE E PROGRESSI CHE NE DERIVANO
1. Per puntualizzare ulteriormente l'argomento, esaminiamo quale può essere la giustizia dell'uomo durante l'intera sua vita.
Dobbiamo considerare quattro casi: l'uomo, privo della conoscenza di Dio, è avvolto nell'idolatria; pur avendo ricevuto la Parola ed i sacramenti, ma vivendo in modo dissoluto, rinnega con le sue opere il Signore che confessa a parole ed è perciò cristiano soltanto di nome; ipocrita, nasconde la sua perversità sotto un'apparenza di onestà; rigenerato dallo Spirito di Dio, persegue con tutto il cuore la santità e l'innocenza.
Quanto al primo caso, dovendo considerare una tal categoria di persone così come sono per natura, non vi si troverà una sola scintilla di bene dalla cima del capo alla pianta dei piedi; a meno che non vogliamo considerare menzognera la Scrittura, quando dice che tutti i figli di Adamo sono di cuore perverso e indurito (Gr. 17.9) , che fin dalla loro prima giovinezza non possono che avere disegni malvagi (Ge 8.21) , che tutti i loro pensieri sono vani, che non temono Dio, che nessuno di loro ha intelligenza, che nessuno cerca Dio (Sl. 94.2; 14.2); che, insomma, sono carne (Ge 6.3) , termine che include tutte le opere menzionate da san Paolo: adulterio, impurità, impudicizia, dissolutezza, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordie, contese, ira, dispute, dissensi, sette, invidie, omicidi e tutto quel che si può pensare di malvagio e abominevole (Ga 5.19). È: questa la dignità di cui possono inorgoglirsi. Se alcuni fra loro hanno una qualche apparenza di onestà nei loro costumi e da essa acquistano fama di santità fra gli uomini, se vogliamo che una tale onestà abbia un qualche valore per giustificarli, sapendo che Dio non si cura dell'aspetto esteriore, dobbiamo ris.lire alla sorgente e all'origine delle loro opere; dobbiamo considerare da vicino quale disposizione dà origine a tali opere. Sebbene l'argomento offra possibilità di un lungo discorso, potendolo restringere in poche parole mi sforzerò, per quanto possibile, di esser breve.
2. Anzitutto non nego che le doti egregie presenti nella vita degli increduli e degli idolatri, non siano doni di Dio. Non sono privo di buon senso al punto da non voler fare alcuna differenza fra la giustizia, la moderazione e l'equità di Tito e di Traiano, che furono buoni imperatori romani, e il furore, l'intemperanza e la crudeltà di Caligola, di Nerone o Domiziano, che hanno regnato come belve; fra gli adulterii di Tiberio e la continenza di Vespasiano; e, senza soffermarmi su ogni vizio o virtù, sostenere che non vi è differenza fra l'osservare e il disprezzare la legge. Tale è la differenza fra il bene e il male, che essa appare perfino in questo richiamo ormai morto. Quale ordine rimarrebbe nel mondo se queste cose fossero confuse fra loro? Perciò il Signore, non solo ha impresso nel cuore di ciascuno la distinzione fra l'onesto e il disonesto, ma l'ha anche spesso confermata attraverso la sua provvidenza. Infatti vediamo che egli elargisce molte benedizioni della vita presente a coloro che cercano, fra gli uomini, di praticare la virtù. Non che quest'ombra e immagine di virtù meriti il minimo dei suoi benefici; ma gli piace dimostrare quanto ami la vera virtù, compensando con qualche dono temporale quella che, pure, è esteriore e simulata. La conseguenza di quanto abbiamo prima affermato è che queste virtù, o piuttosto questi simulacri di virtù, sono doni che procedono da lui, visto che non esiste nulla di lodevole che non ne derivi.
3. Quanto scrive sant'Agostino non cessa però di esser vero: tutti coloro che sono estranei alla religione di un solo Dio, per quanto siano da ammirare e da stimare per la loro onestà, non solo non sono degni di alcuna remunerazione, ma sono piuttosto degni di punizione, poiché contaminano i doni di Dio con la sozzura del loro cuore. E sebbene siano strumenti di Dio per mantenere e conservare la giustizia, la continenza, l'amicizia, la prudenza, la temperanza e la forza nel consorzio umano, eseguono tuttavia molto male queste buone opere di Dio. Infatti si astengono dal compiere il male non per pura disposizione all'onestà o alla giustizia, ma per ambizione o amore verso loro stessi o per qualche altra considerazione perversa e priva di rettitudine. Poiché dunque le loro opere sono corrotte dall'impurità del cuore, fin dalla loro prima origine, esse non meritano di essere annoverate fra le virtù più di quanto lo meritino i vizi i quali, malgrado una certa somiglianza e affinità con le virtù, ingannano gli uomini. In breve, sapendo che il fine unico e perenne della giustizia e della rettitudine è di onorare Dio, tutto ciò che volge il nostro pensiero altrove perde, a buon diritto, il nome di rettitudine. Poiché una tal categoria di persone non considera il fine proposto dalla sapienza di Dio, rende il suo operare, buono esteriormente, peccaminoso a motivo del fine non buono. Sant'Agostino conclude dunque che tutti coloro che sono stati stimati, fra i pagani, hanno sempre peccato malgrado la loro apparenza di virtù, perché, mancanti della luce della fede, non hanno riferito le loro opere, considerate virtuose, al giusto fine.
4. Inoltre, se è vero quanto afferma san Giovanni, che cioè non esiste vita all'infuori del figlio di Dio (1 Gv. 5.12) , tutti coloro che non sono parte di Cristo, chiunque essi siano e qualunque cosa cerchino di fare o facciano, tutto il corso della loro vita non tende che a rovina, confusione e giudizio di morte eterna.
In base a tale argomento, sant'Agostino dice in un passo: "La nostra religione non distingue i giusti dagli iniqui in base al criterio delle opere, ma della fede, senza la quale le opere che paiono buone si convertono in peccato ". Perciò egli stesso paragona felicemente la vita di costoro ad una corsa sbandata. Quanto più un uomo corre in fretta fuori della strada, tanto più rimane lontano dalla sua meta e perciò infelice. Conclude dunque che val meglio zoppicare nella retta via che correre con disinvoltura fuori di essa .
Infine, sono certamente alberi malvagi, poiché non vi è santificazione all'infuori della comunione con Cristo. Possono dunque produrre frutti piacevoli, anzi di dolce sapore, ma non ne possono assolutamente produrre di buoni. Da ciò vediamo chiaramente che tutto quel che l'uomo pensa, medita, intraprende e fa prima di essere riconciliato con Dio, è maledetto e non solo non serve affatto a giustificarlo, ma merita piuttosto una sicura condanna.
Ma perché discutere di questo come di cosa dubbiosa, se già è stato deciso dalla testimonianza dell'apostolo che è impossibile piacere a Dio senza la fede? (Eb. 11.6).
5. Il problema risulterà più chiaro se consideriamo da un lato la grazia di Dio e dall'altro la condizione naturale dell'uomo. La Scrittura rivela dovunque, con voce forte e chiara, che Dio non trova nell'uomo nulla che lo invogli a fargli del bene, ma lo previene con la sua benignità gratuita. Infatti, che cosa potrebbe avere un morto per essere risuscitato alla vita? Quando Dio illumina l'uomo e gli rivela la sua verità, è detto che lo suscita dai morti e ne fa una nuova creatura (Gv. 5.25). Spesso infatti la bontà di Dio ci è presentata sotto questo aspetto, soprattutto dall'apostolo: "Dio, che è ricco in misericordia, per il grande amore di cui ci ha amati, al tempo in cui eravamo morti nel peccato ci ha vivificati in Cristo " (Ef. 2.4).
In un altro passo, considerando attraverso la figura di Abramo la vocazione generale dei credenti: "È Dio, dice, che vivifica i morti e chiama le cose che non sono come se esistessero " (Ro 4.17). Se non siamo nulla, che potere abbiamo? Perciò Dio spegne con forza ogni nostra presunzione nella storia di Giobbe: "Chi mi ha anticipato alcunché perché io glielo debba rendere? Ogni cosa è mia " (Gb. 41.2). San Paolo spiega questa affermazione (Ro 11.35) , dicendo che non dobbiamo pensare di portare alcunché a Dio, se non pura confusione e obbrobrio della nostra indigenza. E nel passo citato prima, per indicare che abbiamo speranza di essere salvati per la sola grazia di Dio e non per le nostre opere, dice che siamo sue creature, rigenerati in Cristo in vista delle buone opere che Dio ha preparato per noi affinché camminassimo in esse (Ef. 2.10). Come se dicesse: chi di noi si vanterà di aver prevenuto Dio con la propria giustizia, dato che la nostra prima disposizione a compiere il bene procede dalla sua rigenerazione? In base a quel che siamo per natura, sarebbe più facile ricavare olio da una pietra che una sola buona opera da noi. Fa meraviglia che l'uomo, condannato da una simile ignominia, osi ancora attribuirsi qualcosa.
Riconosciamo dunque con san Paolo, nobile strumento di Dio, che siamo chiamati da una vocazione santa, non secondo le nostre opere ma secondo la sua elezione e la sua grazia (2Ti 1.9); e che la benignità e l'amore di Dio, nostro salvatore, si sono manifestati in quanto ci ha salvati, non per opere di giustizia che avessimo compiute, ma secondo la sua misericordia affinché, giustificati per grazia sua, fossimo eredi della vita eterna (Tt 3.4). Con una simile confessione, priviamo l'uomo di ogni giustizia, fino all'ultima goccia, finché non sia rigenerato a speranza di vita per la sola misericordia di Dio; se infatti le opere avessero un qualche potere di giustificarci, sarebbe errata l'affermazione che siamo giustificati per grazia. L'Apostolo certo non dimenticava, affermando che la giustificazione è gratuita, quanto dice in un altro passo: la grazia non è più grazia se le opere hanno un qualche valore (Ro 11.6). Che altro vuol significare il Signor Gesù, dicendo che è venuto a chiamare i peccatori e non i giusti? (Mt. 9.13). Se solo i peccatori sono ammessi alla salvezza, perché cerchiamo di entrarvi per mezzo della nostra giustizia contraffatta?
6. Mi chiedo, a volte, se non offendo la misericordia di Dio, mettendo tanto impegno nel difenderla, quasi fosse oscura o dubbiosa. La nostra malvagità è però tale da non voler concedere mai a Dio quel che gli appartiene, a meno di non esservi costretta per necessità; mi vedo perciò costretto a soffermarmi un po' più a lungo di quanto vorrei su questo punto. La Scrittura è abbastanza chiara al riguardo, utilizzerò dunque le sue parole e non le mie.
Isaia, dopo aver descritto l'universale rovina del genere umano, espone chiaramente l'ordine della restaurazione: "Il Signore l'ha visto e gli è dispiaciuto; ha visto e si è meravigliato che non un solo uomo intercedesse. Perciò ha posto la salvezza nel suo braccio e la sua giustizia l'ha sostenuto " (Is. 49.15). Dov'è la nostra giustizia, se è vero quel che dice il Profeta, che non ve n'è uno solo il quale collabori con Dio a ritrovare la salvezza? Così l'altro Profeta parla del Signore che vuol riconciliare a se il peccatore: "Ti sposerò, dice, per l'eternità; ti sposerò in giustizia, in equità, in benignità e in compassione. Dirò a colui che non aveva ottenuto misericordia che l'ha ottenuta " (Os 2.19-23). Se una simile alleanza, che è la prima unione di Dio con noi, poggia sulla misericordia di Dio, non ci rimane altro fondamento su cui basare la nostra giustizia.
Coloro che vogliono far credere che l'uomo si presenta a Dio con qualche merito, mi dicano se esiste una qualche giustizia sgradita a Dio. Certo no; ma che cosa può venire dai nemici suoi che gli sia gradito, visto che li ha in abominio con tutte le loro opere? La verità attesta che siamo tutti nemici mortali di Dio e che c'è guerra aperta fra lui e noi (Ro 5.6; Cl. 1.21) , fino al momento in cui, essendo giustificati, rientriamo nella sua grazia. Se l'inizio dell'amore di Dio per noi è la nostra giustificazione, quali forme di giustizia delle opere potranno precedere? Perciò san Giovanni, per sottrarci a questa pericolosa arroganza, ci ricorda con insistenza che non lo abbiamo amato per primi (1 Gv. 4.10). E il Signore aveva insegnato questo molto tempo prima, per mezzo del suo Profeta, dicendo che ci amerebbe di un amore volontario, perché il suo furore si distoglierà da noi (Os 14.5). Se è incline per bontà sua ad amarci, non sarà certo mosso dalle nostre buone opere.
Il volgo ignorante intende con ciò che nessuno aveva meritato che Cristo compisse la nostra redenzione, ma che per venire in possesso di questa redenzione siamo aiutati dalle nostre opere. Al contrario, sebbene siamo riscattati da Cristo, rimaniamo tuttavia sempre figli delle tenebre, nemici di Dio e eredi della sua collera fino a che, per la chiamata gratuita del Padre, non siamo incorporati nella comunione con Cristo. Infatti san Paolo dice che non siamo purificati e lavati dalle nostre impurità fino a quando lo Spirito Santo non compia in noi questa purificazione (1 Co. 6.2). Anche san Pietro lo dice, insegnando che la santificazione dello Spirito di Dio fa sì che ubbidiamo e siamo cosparsi del sangue di Cristo (1 Pi. 1.2). Se per essere purificati siamo aspersi dal sangue di Cristo per mezzo dello Spirito, non pensiamo di essere, prima di questa aspersione, diversi da un peccatore senza Cristo.
Ci sia dunque chiaro questo fatto: l'inizio della nostra salvezza è come una risurrezione dalla morte alla vita. Poiché quando ci è dato, per amor di Cristo, di credere in lui, allora cominciamo ad entrare dalla morte alla vita.
7. Qui includiamo la seconda e la terza categoria di uomini secondo la classificazione fatta sopra. L'impurità della coscienza, caratteristica agli uni e agli altri, è un segno che non sono ancora rigenerati dallo Spirito di Dio. Inoltre, il fatto che non siano rigenerati è segno che non hanno fede; da ciò appare che essi non sono ancora riconciliati con Dio, né giustificati nel suo giudizio, visto che non si giunge a tali beni se non per fede. Che cosa i peccatori lontani da Dio potrebbero fare, che non sia esecrabile al suo giudizio?
È vero che tutti gli increduli, e soprattutto gli ipocriti, sono pieni di una fiducia assurda: pur sapendo che il loro cuore è pieno di impurità e malvagità, quando compiono qualche opera buona, in apparenza, la considerano degna di apprezzamento da parte di Dio. Di qui deriva il mortale errore per cui coloro che sono convinti di avere il cuore malvagio e iniquo, non riescono a prendere la decisione di riconoscersi privi di giustizia; pur riconoscendosi ingiusti, perché non lo possono negare, si attribuiscono tuttavia una qualche giustizia. Una simile vanità è radicalmente confutata da Dio per mezzo del profeta Aggeo: "Chiedi questo ai preti: "Se un uomo porta nel lembo del suo vestito della carne consacrata, o tocca del pane consacrato, sarà per questo santificato "? "I preti rispondono di no. Aggeo li interroga ancora: "Se un uomo impuro nella sua anima tocca qualcuna di queste cose, la renderà impura? "I preti rispondono di sì. A questo punto viene ordinato ad Aggeo di dir loro: "Così è questo popolo dinanzi a me; tali sono le opere delle sue mani; tutto quel che mi offrirà sarà contaminato " (Hag 2.2). Volesse Iddio che questa affermazione fosse da noi ricevuta e ben impressa nella nostra memoria. Poiché nessuno, per quanto malvagio possa essere in tutta la sua vita, si persuaderà di quel che il Signore denuncia qui chiaramente. Se l'uomo più malvagio del mondo ha adempiuto il suo dovere relativamente a qualche punto, non mette in dubbio che ciò gli venga messo in conto di giustizia. Al contrario, il Signore afferma che ciò non fa acquistare alcuna santificazione, se il cuore non è anzitutto ben purificato. E non contento di ciò, aggiunge che tutte le opere che procedono dai peccatori sono contaminate dall'impurità del loro cuore. Guardiamoci, dunque, dal definire giuste le opere che sono condannate come impure per bocca di Dio. E con quante belle similitudini lo dimostra! Si poteva obiettare che quel che Dio ha ordinato è inviolabilmente santo; al contrario, egli dimostra che non fa meraviglia se le opere che Dio ha santificate nella sua legge sono insozzate dall'impurità dei malvagi, visto che una mano impura profana quel che era stato consacrato.
8. Anche in Isaia il Signore fa analoghe affermazioni: "Non mi offrite invano sacrifici. Ho in abominio il vostro incenso; il mio cuore odia tutte le vostre feste e solennità; mi meraviglio di sopportarle. Quando eleverete le vostre mani, distoglierò da voi i miei occhi; quando moltiplicherete le vostre preghiere, non le esaudirò; poiché le vostre mani sono piene di sangue. Lavatevi, siate puri e togliete di mezzo i vostri pensieri malvagi! " (Is. 1.13). Perché il Signore respinge e ha in così grande abominio l'osservanza della sua legge? Ma non respinge nulla che nasca da pura e vera osservanza della Legge, il cui fondamento consiste, come insegna dappertutto, in un timore del suo nome che nasce dal fondo del cuore. Tolto questo, tutto quel che gli si offre non solo è roba inutile, ma spazzatura puzzolente e abominevole. Si sforzino ora gli ipocriti di meritare la grazia di Dio con le loro buone opere, pur avendo il cuore ingombro di pensieri perversi! Così facendo lo irriteranno sempre più. Poiché i sacrifici degli iniqui gli sono esecrabili, e solo la preghiera dei giusti gli è gradita (Pr 15.8).
Dev'esser dunque chiaro, per coloro che hanno una certa familiarità con la Scrittura, che tutte le opere degli uomini non santificate da Dio Cl. Suo Spirito, per quanto valide in apparenza, sono lungi dall'essere considerate giustizia davanti a Dio, anzi sono ritenute peccato. Di conseguenza, ha detto il vero chi ha insegnato che le opere non procurano grazia e favore alla persona che le fa, ma, al contrario, sono gradite a Dio quando la persona è stata accolta da lui, nella sua misericordia. Dobbiamo prestare attenzione a questo ordine delle cose nel quale la Scrittura ci conduce, quasi per mano. Mosè scrive che Dio ha rivolto il suo sguardo ad Abele e alle sue opere (Ge 4.4). Non vediamo, forse, che intende dire che Dio è propizio agli uomini, prima di guardare alle loro opere? Bisogna dunque che la purificazione del cuore preceda, affinché le opere che provengono da noi siano favorevolmente ricevute da Dio; è infatti sempre valida l'affermazione di Geremia, secondo la quale gli occhi di Dio cercano l'integrità (Gr. 5.3). E lo Spirito Santo ha una volta affermato, per bocca di san Pietro, che i nostri cuori sono purificati per mezzo della sola fede (At. 15.9). Ne deriva che il primo fondamento consiste nella fede viva e vera.
9. Consideriamo ora la giustizia di coloro che abbiamo inclusi nella quarta categoria. Noi confessiamo, quando Dio ci riconcilia a se per mezzo della giustizia di Gesù Cristo e ci considera giusti avendoci gratuitamente rimesso i nostri peccati, che a questo atto di misericordia è connesso un altro beneficio: per mezzo del suo Spirito Santo egli abita in noi, e per virtù di esso le concupiscenze della nostra carne sono quotidianamente mortificate; in tal modo siamo santificati, cioè consacrati a Dio in vera purezza di vita, poiché i nostri cuori sono plasmati nell'obbedienza della Legge, affinché il nostro volere principale sia di servire alla sua volontà e proclamare la sua gloria in ogni modo. Tuttavia, mentre guidati dallo Spirito Santo camminiamo nella via del Signore, sussistono, in noi, delle imperfezioni che ci impediscono di inorgoglirci. "Non vi è alcun giusto "dice la Scrittura "che compia il bene e sia esente da peccato " (3Re 8.46).
Quale giustizia, dunque, i credenti trarranno dalle loro opere? Anche l'opera migliore risulta sempre insozzata e corrotta da qualche impurità della carne, come un vino è intorbidito dalla sua feccia. Il servitore di Dio, dico, scelga l'opera migliore di tutta la sua vita; quando ne avrà ben esaminato tutte le parti, scoprirà senza dubbio che in qualche punto essa puzzerà del marciume della sua carne, visto che in noi non sussiste mai una giusta disposizione a compiere il bene, ma una gran debolezza che ci ostacola. Le macchie da cui sono intaccate le opere dei santi non sono né trascurabili né nascoste: tuttavia, anche supponendo che siano tali, non offenderebbero gli occhi del Signore, davanti al quale neanche le stelle sono pure? Ben sappiamo che dai credenti non proviene una sola opera che, considerata in se, non meriti una giusta ricompensa di obbrobrio.
10. Inoltre, quand'anche compissimo qualche opera pura e perfetta, basta un solo peccato per cancellare e spegnere ogni ricordo della nostra giustizia precedente, come dice il Profeta (Ez. 18.24); anche san Giacomo concorda con lui, dicendo che colui che ha peccato su un punto è reso colpevole su tutti gli altri (Gm. 2.10). E poiché questa vita mortale non è mai pura o priva di peccato, tutta la giustizia che avremmo acquistata sarebbe continuamente corrotta, oppressa e persa dai peccati successivi; perciò non verrebbe messa In conto davanti a Dio per esserci imputata come tale.
Infine, quando è questione della giustizia delle opere, non bisogna considerare un solo fatto, ma la Legge stessa. Se dunque cerchiamo la giustizia nella Legge, invano produrremo un'opera o due, poiché è richiesta un'obbedienza continua. Non è dunque una volta per tutte che il Signore ci imputa a giustizia la remissione gratuita dei nostri peccati, come alcuni pazzamente ritengono, affinché avendo una volta ottenuto il perdono per la nostra vita malvagia, cerchiamo in seguito la giustizia nella Legge; così facendo si befferebbe di noi, ingannandoci con una vana speranza. Infatti, non potendo avere alcuna perfezione finché siamo in questo corpo mortale, mentre la Legge stabilisce giudizio e morte per tutti coloro che non avranno compiuto opere di perfetta giustizia, essa avrebbe sempre di che accusarci e convincerci di peccato, se la misericordia di Dio non la precedesse per assolverci con una remissione continua dei nostri peccati
Permane dunque valido quanto ho detto all'inizio: se siamo giudicati secondo la nostra dignità, qualunque cosa cerchiamo di fare saremo sempre degni di morte, noi con i nostri sforzi e le nostre imprese.
11. Dobbiamo considerare attentamente questi due punti: il primo è che non si è mai trovata opera di credente che non sia da condannare, se esaminata secondo il rigore del giudizio di Dio. Il secondo è che quand'anche se ne trovasse una simile (cosa impossibile all'uomo) , essendo tuttavia corrotta e insozzata dai peccati di colui che la compie, essa perderebbe ogni valore e significato.
Questo è il punto principale della disputa che sosteniamo con i papisti, e quasi il nodo dell'argomento. Poiché quanto al principio della giustificazione, non vi è alcuna discussione fra noi e i dottori scolastici dotati di un po' di buon senso e di ragione. È pur vero che la povera gente è stata ingannata al punto di credere che l'uomo si prepari da solo ad essere giustificato da Dio; e una simile bestemmia ha comunemente regnato sia nelle prediche sia nelle scuole; e la si sostiene tuttora da parte di chi vuol mantenere tutte le abominazioni del papato. Ma chi è dotato di un po' di ragione ha sempre concordato con noi nel dire che il peccatore, liberato dalla condanna per gratuita bontà di Dio, è giustificato in quanto ottiene il perdono delle sue colpe Il contrasto avviene su questi punti: anzitutto intendono, con il termine "giustificazione ", il rinnovamento di vita o la rigenerazione per mezzo della quale Dio ci riforma nell'obbedienza della sua Legge. In secondo luogo pensano che l'uomo, una volta rigenerato, sia gradito a Dio e considerato giusto per mezzo delle sue buone opere.
Il Signore afferma, invece, che ha imputato a giustizia la fede del suo servo Abramo (Ro 4.3) , non solo per il tempo in cui serviva agli idoli, ma quando già da lungo tempo aveva cominciato
A vivere santamente. Abramo aveva dunque già a lungo adorato Dio con purezza di cuore e aveva seguito a lungo i suoi comandamenti, per quanto un uomo mortale lo possa fare; tuttavia egli ottiene la sua giustificazione per mezzo della fede. Ne concludiamo, secondo san Paolo, che non è per mezzo delle opere. Similmente, quando è detto al Profeta che il giusto vivrà di fede (Hab 2.4) , non si parla degli increduli, che Dio giustifica convertendoli alla fede; ma quest'insegnamento si rivolge ai credenti, e dice loro che vivranno per fede.
San Paolo lo dichiara in modo ancor più esplicito quando, per dar prova della giustificazione gratuita, cita questo passo di Davide: "Sono beati coloro ai quali i peccati sono perdonati! " (Sl. 32.1). È chiaro che Davide non parla degli increduli, ma di se stesso e dei suoi simili, riferendosi al sentimento che ne aveva dopo aver a lungo servito Dio. Non dobbiamo dunque considerare questa beatitudine come limitata, ma ci deve accompagnare per tutta la vita.
Infine, l'ambasciata di riconciliazione di cui parla san Paolo (2 Co. 5.18) , la quale ci attesta che abbiamo la nostra giustificazione nella misericordia di Dio, non ci è data per un giorno soltanto, ma è perenne nella Chiesa cristiana. Di conseguenza i credenti non hanno altra giustizia fino alla morte, all'infuori di quella ivi descritta. Cristo è Mediatore per sempre, onde riconciliarci Cl. Padre, e l'efficacia della sua morte, data dall'abluzione, dall'espiazione e dalla perfetta ubbidienza che ha vissuto è perenne; in tal modo tutte le nostre iniquità sono cancellate. E san Paolo, agli Efesini, non dice che ci è dato per grazia solo l'inizio della nostra salvezza, ma che siamo salvati dalla grazia e non dalle opere, onde nessuno si glorii (Ef. 2.8).
12. I sotterfugi che i Sorbonisti cercano, a questo punto, per cavarsela, non sono loro di alcuna utilità. Dicono che le buone opere non hanno, per giustificare l'uomo, un qualche valore che provenga dalla loro dignità, che chiamano intrinseca, ma dalla grazia di Dio che le accetta.
Inoltre, costretti a riconoscere che la giustizia delle opere è sempre imperfetta, ammettono che, mentre siamo in questo mondo, abbiamo sempre bisogno che Dio perdoni i nostri peccati per sovvenire all'imperfezione delle nostre opere, ma che questo perdono si attua perché le colpe, che si commettono, sono compensate da opere supererogatorie.
Rispondo che la grazia da loro chiamata "accettante ", altro non è che la bontà gratuita del Padre celeste, per mezzo della quale egli ci accoglie in Gesù Cristo: è quella che ci veste della di lui innocenza e ce la attribuisce per considerarci, attraverso questo beneficio, santi, puri e innocenti. Bisogna infatti che la giustizia di Cristo si presenti al posto nostro e sia come consegnata al giudizio di Dio, poiché essa sola, in quanto è perfetta, può sostenere il suo sguardo. Rivestiti di questa, otteniamo nella fede remissione continua dei nostri peccati. Le nostre macchie e imperfezioni, nascoste dalla sua purezza, non ci vengono imputate, ma sono come sepolte, onde non appaiano dinanzi al giudizio di Dio fino al giorno in cui, dopo la morte del nostro vecchio uomo, la bontà di Dio ci accoglierà, con Gesù Cristo che è il nuovo Adamo, in un felice riposo nel quale aspetteremo il giorno della risurrezione quando, dopo aver ricevuto un corpo incorruttibile, saremo trasferiti nella gloria celeste.
13. Se questo è vero, nessuna opera può, di per se, renderci graditi a Dio. Anzi non gli sono gradite, se non nella misura in cui l'uomo, coperto dalla giustizia di Cristo, gli è gradito e ottiene la remissione dei suoi peccati. Dio non ha promesso la ricompensa della vita a qualche opera singola, ma afferma semplicemente che colui che avrà adempiuto il contenuto della Legge vivrà (Le 18.5) , mentre tutti coloro che saranno venuti meno in un sol punto saranno maledetti. L'errore comune, riguardo alla giustizia parziale, è così confutato, poiché Dio non ammette alcuna giustizia se non l'intera osservanza della sua legge.
La loro tesi, di una eventuale espiazione mediante opere supererogatorie, non ha maggior consistenza. Non ritornano forse sempre al punto già confutato, che cioè chiunque osserva in parte la Legge è giusto in virtù delle sue opere? Così facendo, danno per certa una cosa che nessuna persona di buon senso ammette. Il Signore attesta di frequente che non riconosce altra giustizia all'infuori della perfetta ubbidienza alla sua legge. Avremmo forse l'arroganza, essendone privi, di prevalerci, per non sembrare spogli di ogni bene e non dover dimissionare del tutto davanti a Dio, di qualche frammento di buone opere e di voler, in tal modo, riscattare quel che ci manca, per mezzo di espiazioni? Queste sono state in precedenza violentemente stroncate, di modo che non dovrebbero venirci in mente neppure in sogno. Dico solo che coloro che chiacchierano così sconsideratamente, non vagliano quanto il peccato sia esecrato da Dio, perché in tal caso si renderebbero certamente conto che tutta la giustizia degli uomini, ammucchiata insieme, non basterebbe a compensare un solo peccato. Vediamo bene che l'uomo, per aver commesso un solo peccato, è stato a tal punto respinto da Dio che ha perso ogni mezzo per ritrovare la salvezza (Ge 3.17). La possibilità di espiare ci è dunque tolta, e coloro che se ne dicono capaci non soddisferanno mai Dio, al quale nulla di quel che proviene dai suoi nemici è gradito. Ora, tutti coloro ai quali vuole imputare i peccati gli sono nemici. Bisogna dunque che tutti i peccati siano coperti e perdonati, prima che egli prenda in considerazione una sola delle nostre opere. Perciò la remissione dei peccati è gratuita, ed è gravemente denigrata da coloro che mettono avanti una nostra possibilità di espiare.

Noi dunque, seguendo l'esempio dell'apostolo, dimentichiamo le cose passate e tendiamo a quel che ci sta davanti, proseguendo la nostra corsa per giungere al premio della vocazione di Dio (Fl. 3.13).
14. Il voler rivendicare opere supererogatorie, si concilia forse con quel detto, secondo cui, compiuto tutto quel che ci è ordinato, dobbiamo riconoscere di essere servitori inutili, i quali non hanno fatto altro che il proprio dovere? (Lu 17.10). Davanti a Dio non si tratta di fingere o mentire, ma essere convinti di quel che riteniamo certo. Il Signore dunque ci ordina di giudicare secondo verità, riconoscendo di cuore che non compiamo per lui alcun servizio gratuito, ma semplicemente gli rendiamo quello di cui gli siamo debitori. E questo a buon diritto; poiché siamo suoi servi, e costretti dalla nostra condizione a rendergli tanti servizi, che ci è impossibile adempierli, quand'anche tutti i nostri pensieri e le nostre membra non si rivolgessero a null'altro. Perciò il dire: dopo che avrete fatto tutto quel che vi sarà stato ordinato, equivale a: ponete il caso che tutti gli atti di giustizia del mondo si trovino in un solo uomo, e ancora di più. Noi dunque, tutti lontani da quella meta, oseremmo forse gloriarci di aver aggiunto qualcosa alla giusta misura?
E non bisogna che qualcuno affermi che chi non compie il suo dovere può fare, su qualche punto specifico, più del richiesto. Non ci può venire in mente per onorare Dio o amare il nostro prossimo, qualcosa che non sia incluso nella legge di Dio. Se si tratta dunque di una parte della Legge, non dobbiamo rivendicare una generosità volontaria laddove siamo costretti per obbligo.
15. Citano a sproposito, sperando di trarne un appoggio, l'affermazione in cui san Paolo si gloria di non essersi valso, fra i Corinzi, del diritto di cui poteva valersi, se avesse voluto, e di non essersi limitato a dar loro quel che il suo compito richiedeva, ma di aver fatto più del suo dovere predicando loro l'Evangelo gratuitamente (1 Co. 9.1). Bisogna considerare la motivazione da lui addotta: lo ha fatto per non essere di scandalo ai deboli (1 Co. 9.12). I seduttori che gettavano lo scompiglio in quella Chiesa infatti, Cl. Pretesto di non chiedere nulla in cambio della loro fatica, si facevano strada per acquistar prestigio alla loro dottrina e mettere in cattiva luce l'Evangelo; san Paolo si trova così nella necessità di ovviare a tali astuzie, o di compromettere l'insegnamento di Cristo. Se non ha importanza per un cristiano incorrere in uno scandalo quando se ne può astenere, ammetto che l'Apostolo ha dato a Dio qualcosa di più di quel che gli doveva. Ma se ad un saggio predicatore dell'evangelo questo era richiesto, dico che ha fatto il suo dovere.
Infine, se neanche questa ragione fosse evidente, è sempre valido quel che dice Crisostomo: tutto quel che proviene da noi, partecipa della nostra condizione di servi: appartiene cioè per diritto di servitù al padrone. Questo non è stato dissimulato da Cristo nella parabola. Infatti egli chiede quale gratitudine avremo per il nostro servo quando costui, dopo aver lavorato tutto il giorno, torna a casa la sera (Lu 17.7-9). Può darsi che abbia sgobbato più di quanto avessimo osato imporgli; se anche fosse così, non avrebbe fatto nulla più di quel che doveva per diritto di servitù, visto che ci appartiene, con tutto quel che può fare.
Non staremo ad esaminare le supererogazioni di cui si vogliono abbellire davanti a Dio; tuttavia non sono che ciarpame che egli non ha ordinato e non approva; e al momento in cui ne renderanno conto non ne riceveranno lode affatto; si tratta infatti di opere supererogatorie nel senso in cui lo dice il Profeta: "Chi ha richiesto queste cose alle vostre mani? " (Is. 1.12). Ma bisogna che questi farisei ricordino quel che è detto in un altro passo: "Perché vi disfate del vostro denaro senza comperare pane? Perché vi occupate di cose che non vi possono saziare? " (Is. 55.2). I nostri signori maestri possono discutere senza grandi difficoltà di questi argomenti, poiché nelle loro scuole sono mollemente seduti su cuscini; ma quando il giudice sovrano apparirà dal cielo sul suo trono di giudizio, tutto quel che avranno disquisito non gioverà loro molto e svanirà come fumo. Ecco quanto bisognava ricercare a questo riguardo: quale sicurezza potremo portare per difenderci in quell'orribile giudizio, e non quel che se ne può cianciare o mentire in qualche angolo di Sorbona.
16. È necessario liberare il nostro cuore da due errori: avere fiducia nelle nostre opere e attribuir loro qualche lode.
La Scrittura le priva frequentemente di ogni fiducia, dicendo che tutte le nostre opere di giustizia non sono che spazzatura e fetore davanti a Dio, a meno che non traggano buon odore dalla giustizia di Gesù Cristo; e non possono che provocare la vendetta di Dio, se non sono sostenute dalla dolcezza della sua misericordia. Essa non ci lascia così nulla, a meno che non imploriamo la clemenza del nostro giudice per ottenere perdono, confessando, con Davide, che nessuno sarà giustificato dinanzi a lui, se egli chiede ai suoi servitori di rendergli conto. E quando Giobbe afferma: "Guai a me se ho errato, ma se ho agito rettamente non alzerò il capo " (Gb. 10.15) , sebbene guardi alla giustizia sovrana di Dio, cui nemmeno gli angeli possono soddisfare, tuttavia indica che quando si viene davanti al trono di giudizio di Dio, non rimane, alle creature umane, che far silenzio. Egli non intende dire che preferisce cedere a Dio spontaneamente, piuttosto che combattere contro il suo rigore; ma che non riconosce, in se, giustizia che non sia vanificata in presenza di Dio.
Quando la fiducia è cacciata, bisogna che anche ogni gloria sia annullata. Chi infatti darà lode di giustizia alle sue opere quando, esaminandole, tremerà dinanzi a Dio? Dobbiamo dunque giungere là dove Isaia ci chiama: tutta la progenie d'Israele si loda e si gloria in Dio (Is. 45.25); è verissimo infatti quel che dice in un altro passo: che siamo piantati per la sua gloria (Is. 61.3). Il nostro cuore sarà dunque rettamente purificato quando non si appoggerà e non confiderà minimamente nelle opere, e non trarrà da esse argomento per elevarsi ed inorgoglire. È questo l'errore che induce gli uomini a quella fiducia frivola e menzognera che li induce a fondare sempre la causa della loro salvezza nelle loro opere.
17. Ma se consideriamo i quattro tipi di cause a cui i filosofi ricorrono, non ne troveremo uno solo che si addica alle opere, quando è questione della nostra salvezza. La Scrittura insegna dappertutto che la causa efficiente della nostra salvezza è la misericordia del nostro Padre celeste e l'amore gratuito che ha avuto verso di noi.
Quanto alla causa materiale, essa ci propone Cristo con la sua obbedienza, per mezzo della quale egli ci ha acquistato la giustizia.
Come definire la causa detta strumentale, se non dicendo che è la fede? San Giovanni ha riunito queste tre cause in una affermazione sola, quando dice che Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unico figlio affinché chiunque crederà in lui non perisca, ma abbia la vita eterna (Gv. 3.16).
Quanto alla causa finale, l'Apostolo dice che è stato per dimostrare la giustizia di Dio e glorificare la sua bontà; egli congiunge anzi chiaramente le tre altre cause menzionate, dicendo: "Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio; ma sono gratuitamente giustificati dalla sua grazia " (Ro 3.23). Indica l'inizio e la fonte della pietà, che Dio ha avuto per noi, nella sua bontà. E prosegue: per mezzo della redenzione, che è in Cristo. Questa è la sostanza su cui si fonda la nostra giustizia. Prosegue ancora: per mezzo della fede nel suo sangue, indicando così la causa strumentale per mezzo della quale la giustizia di Cristo ci è attribuita. Aggiunge poi il fine, quando dice che Dio lo ha fatto per dimostrare la sua giustizia, affinché egli sia giusto, e giustificante colui che ha fede in Gesù Cristo. Anzi, per far intendere rapidamente che la giustizia di cui parla consiste nella riconciliazione fra Dio e noi, dice espressamente che Cristo ci è stato dato per renderci il Padre propizio.
E nel primo capitolo dell'epistola agli Efesini, l'Apostolo insegna che Dio ci riceve nella sua grazia per sua pura misericordia, che ciò avviene per intercessione di Cristo, che riceviamo questa grazia per fede, che il tutto tende a far conoscere pienamente la gloria della sua bontà. Vedendo che tutte le componenti della nostra salvezza risiedono fuori di noi, perché traiamo qualche sicurezza o gloria dalle nostre opere?
Quanto alla causa efficiente e finale, i maggiori avversari della gloria di Dio non potrebbero contraddirci, se non rinnegando tutta la Scrittura. Quando si giunge alla causa materiale e strumentale, essi cavillano come se le nostre opere dividessero a metà la fede e la giustizia di Cristo. Ma la Scrittura contraddice anche a questo, affermando semplicemente che Cristo è per noi giustizia e vita, e che possediamo un tal bene per mezzo della sola fede.
10. I santi trovano spesso sicurezza e consolazione nel rammentarsi la loro innocenza e la loro integrità, e talvolta mettendola avanti. Lo fanno in due modi: paragonando la loro buona causa con la causa malvagia degli iniqui, ne deducono speranza di vittoria, non tanto per il valore o la stima che hanno della loro giustizia, quanto perché l'iniquità dei loro nemici merita condanna. In secondo luogo, ponendosi davanti a Dio senza paragonarsi agli altri, ricevono consolazione e fiducia dalla purezza della loro coscienza. Vedremo in seguito il primo atteggiamento. Consideriamo ora brevemente il secondo. Come può conciliarsi con quanto abbiamo già detto, che cioè non ci dobbiamo fondare, dinanzi al giudizio di Dio, su alcuna fiducia derivante dalle nostre opere e non ce ne dobbiamo affatto gloriare? Il punto di accordo è questo: i santi, dovendo fondare e stabilire la loro salvezza, fissano gli occhi nella sola bontà di Dio, senza considerare le loro opere. E non solo si rivolgono prima di tutto ad essa, come al fondamento della loro beatitudine, ma considerandola anche come compimento, vi acconsentono completamente e vi si riposano. Quando la coscienza è in tal modo fondata, guidata e confermata, può anche fortificarsi considerando le sue opere: in quanto cioè esse sono testimonianza che Dio abita e regna in noi.
Questo tipo di fiducia nelle opere non è possibile fino a che non abbiamo posto tutta la fiducia del nostro cuore nella misericordia di Dio, essa non dimostra dunque affatto che le opere giustifichino, o che possano di per se rendere sicuro l'uomo. Perciò, quando escludiamo la fiducia nelle opere, vogliamo dire semplicemente che l'anima cristiana non deve considerare il merito delle opere come un rifugio di salvezza, ma riposarsi interamente nella promessa gratuita di giustificazione. Tuttavia non le proibiamo di sostenersi e trarre conforto da tutti i segni della benedizione di Dio; poiché se tutti i doni che Dio ci ha fatti sono, nella nostra memoria, come raggi della luce del suo volto che ci illuminano nella contemplazione della luce sovrana della sua bontà, a maggior ragione le buone opere che ci ha date devono servire a dimostrare che ci è stato dato lo Spirito di adozione.
19. Quando dunque i santi confermano la loro fede per mezzo della loro innocenza o ne traggono motivo di allegrezza, non fanno altro che considerare attraverso i frutti della loro vocazione il fatto che Dio li ha adottati come suoi figli.
Salomone dice che vi è ferma sicurezza nel temere il Signore (Pr 14.20; i santi affermano talvolta, per essere esauditi da Dio, di aver camminato dinanzi a lui con integrità e semplicità. (4 Re 20.3); tutto ciò non ha motivo di porsi a fondamento per edificare la coscienza, ma ha valore solo in quanto lo si considera a posteriori, come segno della chiamata di Dio. Il timor di Dio non è mai tale da poter dare ferma certezza; e tutti i santi capiscono bene di non possedere una integrità assoluta, ma impastata con molte imperfezioni e residui della loro umanità; poiché traggono, dai frutti della loro rigenerazione, motivo e segno della presenza in loro dello Spirito Santo, hanno non pochi argomenti per confermare a se stessi di attendere l'aiuto di Dio in ogni necessità, visto che lo sperimentano padre in sì gran cosa. Ma non possono farlo, se prima non hanno compreso la bontà di Dio, accertandosene unicamente attraverso le promesse dell'evangelo. Se una volta cominciano a considerarla secondo le opere, nulla sarà più incerto e più debole, poiché se le opere sono valutate in se stesse, con la loro imperfezione minacceranno l'uomo della collera di Dio, non meno di quanto gli attesteranno la sua benevolenza per mezzo della loro purezza a stento abbozzata.
Insomma, essi annunziano i benefici di Dio pur non allontanandosi affatto dal suo favore gratuito, nel quale, secondo la dichiarazione di san Paolo, troviamo ogni perfezione, in lunghezza, larghezza, profondità e altezza (Ef. 3.18). È come se dicesse che in qualunque direzione si volgano i nostri sensi, quand'anche raggiungessero il punto più alto del mondo o si espandessero in lungo e in largo, non devono oltrepassare questo limite ben preciso: il riconoscimento cioè dell'amore di Gesù Cristo verso di noi, di cui essi devono ben prendere coscienza in quanto include in se tutte le misure. Perciò afferma che questo amore sormonta e sopravanza ogni conoscenza; aggiunge che quando comprendiamo come Dio ci ha amati in Gesù Cristo, siamo ripieni di tutta la pienezza divina (Ef. 3.19). Come altrove, rallegrandosi della vittoria dei credenti in ogni lotta, ne menziona il fondamento e il mezzo, cioè Colui che li ha amati (Ro 8.37).
20. I santi non ricavano dunque dalle loro opere una fiducia che attribuisce qualcosa al loro merito (dato che non le considerano se non come doni di Dio, da cui riconoscono la sua bontà, e segni della loro vocazione, da cui deducono la loro elezione ) , o che sottrae qualcosa alla giustizia gratuita che otteniamo in Cristo, poiché ne dipende e non può sussistere che in lei.
Sant'Agostino lo indica chiaramente, in poche parole: "Non dico al Signore che non disprezzi l'opera delle mie mani; è ben vero che io cerco il Signore delle mie mani, e non sono deluso, ma non apprezzo l'opera delle mie mani. Poiché temo che, se Dio le guardasse, troverebbe più peccati che meriti. Ma dico e prego e desidero soltanto che non disprezzi l'opera delle sue mani. Signore, dunque, vedi la tua opera in me, non la mia; poiché se ci vedi la mia, tu la condanni; ma se ci vedi la tua, la coroni. Infatti, tutte le mie buone opere provengono da te ".
Vediamo che due sono le ragioni per le quali non osa far valere le sue opere davanti a Dio: se ha qualcosa di buono, non proviene da lui; in secondo luogo, tutto il bene che è in lui è sovrastato dalla moltitudine dei suoi peccati. Perciò la coscienza, quando considera le sue opere, sente più terrore e timore che sicurezza. Questa santa persona vuole dunque che Dio guardi i suoi benefici solo per ritrovare in essi la grazia della sua vocazione, onde portare a termine l'opera che ha cominciata.
21. Inoltre, quando la Scrittura afferma che le buone opere sono la causa per la quale il nostro Signore fa del bene ai suoi servitori, lo si deve intendere in modo che quel che abbiamo precedentemente affermato permanga nella sua totalità: l'origine e l'effetto della nostra salvezza risiede nell'amore del padre celeste; la materia e la sostanza, nell'ubbidienza di Cristo; lo strumento, nell'illuminazione dello Spirito Santo, cioè nella fede; il fine è che la bontà di Dio sia glorificata. Questo non impedisce che Dio consideri le opere come cause inferiori, ma da dove deriva? È perché i predestinati dalla sua misericordia all'eredità della vita eterna, sono da lui introdotti, secondo il suo modo abituale di dispensare le cose, al possesso di quella vita per mezzo di buone opere. Così quel che precede, nell'ordine in cui dispensa le cose, lo chiama causa di quel che segue.
Per questa medesima ragione la Scrittura sembra talvolta voler dire che la vita eterna procede dalle buone opere: non che se ne debba attribuir loro la lode, ma perché Dio giustifica coloro che ha eletti, per glorificarli (Ro 8.30). La prima grazia, che è come un gradino verso la seconda, è definita causa. Tuttavia, al momento di stabilire la vera causa, la Scrittura non ci conduce alle opere, ma ci fa soffermare solo sulla meditazione della misericordia di Dio. E che cosa significa l'affermazione dell'apostolo secondo cui il salario del peccato è la morte, e la vita eterna è la grazia di Dio? (Ro 6.23). Perché non oppone la giustizia al peccato, come oppone la vita alla morte? Perché non pone la giustizia a causa di vita, come dice che il peccato è causa di morte? Perché così il paragone sarebbe stato completo, mentre ora è in qualche modo imperfetto. Ma ha voluto esprimere in questo paragone quel che è vero, cioè che la morte è dovuta all'uomo per i suoi meriti, ma che la vita è situata nella sola misericordia di Dio.
Riassumendo, tutte le espressioni che menzionano le buone opere, non mettono in questione la causa per la quale Dio fa del bene ai suoi, ma solo l'ordine da lui seguito: aggiungendo grazia su grazia, prende occasione dalle prime per aumentarle con le seconde, e accresce a tal punto la sua generosità che vuol farci pensare sempre alla sua elezione gratuita, sorgente di tutti i suoi benefici verso di noi. Sebbene ami e apprezzi i doni che quotidianamente ci elargisce, in quanto derivano da quella fonte, tuttavia, poiché è nostro compito fermarci all'accettazione gratuita, che sola può render salde le nostre anime, conviene mettere in seconda linea i doni del suo Spirito, di cui ci arricchisce, onde non tolgano autorità alla prima causa.
CAPITOLO 15
TUTTO QUEL CHE SI DICE PER ESALTARE I MERITI DISTRUGGE SIA LA LODE DI DIO SIA LA CERTEZZA DELLA NOSTRA SALVEZZA
1. Abbiamo già risolto il problema essenziale in questa materia: ogni giustizia, fondata sulle opere, è inevitabilmente annullata dinanzi a Dio; essa può dunque riscontrarsi nella sola misericordia di Dio e nella sola comunione con Cristo, di conseguenza nella sola fede.
Dobbiamo osservare attentamente che questo è il punto principale, per non lasciarci coinvolgere nell'errore comune non solo al popolo, ma anche ai dotti. Infatti, quando si tratta di sapere se la fede o le opere giustificano, essi citano i passi che paiono attribuire qualche merito alle opere dinanzi a Dio, come se la giustificazione per mezzo delle opere fosse dimostrata provando che esse sono tenute in qualche considerazione davanti a Dio. È: stato chiaramente dimostrato che la giustizia delle opere consiste unicamente in un'osservanza perfetta e completa della Legge: ne deriva che nessuno è giustificato dalle sue opere, se non colui che è giunto ad una tal perfezione da non poter essere rimproverato per la minima colpa.
È dunque un altro e diverso problema, il sapere se le opere, benché non bastino a giustificare l'uomo, gli possano acquistare favore dinanzi a Dio.
2. Anzitutto, sono costretto a dire a proposito del termine "merito ", che chi l'ha, per primo, riferito alle opere umane nei confronti del giudizio di Dio, non ha giovato a mantenere l'autenticità della fede. Quanto a me, evito ogni polemica terminologica: ma desidererei che i cristiani avessero sempre conservato la sobrietà di non ricorrere, senza ragione e senza scopo, a vocaboli estranei alla Scrittura, capaci di generare molto scandalo e poco frutto. Infatti, che bisogno c'era, vi chiedo, di tirar fuori il termine "merito ", se la dignità delle buone opere poteva essere spiegata senza inconvenienti altrimenti? Ci rendiamo conto di quanti scandali sono derivati da questo termine, con gran danno del mondo intero: il termine indiscutibilmente pieno di orgoglio, non può che oscurare la grazia di Dio e alimentare negli uomini una vana superbia. Gli antichi Dottori della Chiesa ne hanno comunemente fatto uso, lo ammetto, ma fosse piaciuto a Dio che quella loro parolina non avesse dato occasione di errore ai posteri.
Hanno tuttavia dichiarato non di rado che non volevano recar pregiudizio alla verità. Sant'Agostino, in un passo, dice: "I meriti umani, periti in Adamo, tacciano; regni per mezzo di Gesù Cristo la grazia di Dio ". E: "I santi non attribuiscano nulla ai loro meriti, ma tutto alla misericordia di Dio ". E ancora: "Quando l'uomo vede che tutto quel che ha di buono non proviene da lui ma dal suo Dio, vede altresì che tutto ciò che è lodato in lui non deriva dai suoi meriti, ma dalla misericordia di Dio ". Vediamo come, avendo tolto all'uomo la capacità di agire bene, abbatta anche la dignità dei suoi meriti. Anche Crisostomo dice: "Tutte le nostre opere che seguono la vocazione gratuita di Dio sono come dei debiti che gli paghiamo; ma questi benefici provengono dalla sua grazia, dalla sua bontà e dalla sua pura generosità ".
Ma, tralasciando il termine, consideriamo piuttosto la cosa. San Bernardo dice giustamente, come già ho ricordato altrove, che come basta, per aver dei meriti, il non presumere dai propri meriti così, per essere condannato, basta non aver alcun merito. Ma l'interpretazione che aggiunge, addolcisce la durezza di questo termine: "Procura, dunque, di avere dei meriti; quando li avrai, sappi che ti sono dati; sperane il frutto dalla misericordia di Dio, e così facendo avrai evitato ogni pericolo di povertà, di ingratitudine, di presunzione. Beata la Chiesa che ha meriti senza presunzione, e presunzione senza meriti ". Poco prima aveva indicato in quale senso usava questo termine, dicendo: "Perché la Chiesa si preoccuperebbe dei meriti, poiché ha un mezzo più certo per glorificarsi secondo quanto piace a Dio? Dio non può rinnegarsi; farà quel che ha promesso. Perciò non bisogna chiedere per quali meriti speriamo di essere salvati, visto che Dio dice: "Non sarà per merito vostro, ma per l'amor di me stesso " (Ez. 36.22-23). Basta dunque, per meritare la salvezza, sapere che i meriti non bastano ".
3. Qual sia il merito delle nostre opere, la Scrittura lo indica dicendo che esse non possono sostenere lo sguardo di Dio, in quanto sono spazzatura e impurità; inoltre, quel che meriterebbe l'obbedienza perfetta della Legge, se la si potesse trovare in qualche luogo, lo dichiara ordinandoci di considerarci dei servi inutili, quand'anche fossimo riusciti a fare tutte le cose ordinateci (Lu 17.10) ' poiché neanche così avremmo compiuto qualcosa di gratuito verso Dio, ma ci saremmo semplicemente sdebitati dei servizi dovutigli, in cambio dei quali egli non deve alcuna grazia.
Tuttavia il Signore chiama nostre le opere che ci ha date: non solo attesta che gli sono gradite, ma che saranno da lui ricompensate. A partire da quel momento, è nostro compito prendere coraggio ed essere incitati da quelle promesse per non stancarci nel compiere il bene, e non essere ingrati verso una tal benignità. Tutto ciò che merita lode nelle nostre opere è indubbiamente grazia di Dio e non ci possiamo attribuire a buon diritto un sol briciolo di bene. In verità, se lo riconosciamo, non solo svanirà ogni fiducia nel merito, ma anche ogni illusione.
Non dividiamo dunque la lode delle buone opere fra Dio e l'uomo, come fanno i Sofisti, ma conserviamola intera per Dio. All'uomo riserviamo solo questo egli inquina e sporca con la sua impurità le opere che altrimenti erano buone, in quanto provenienti da Dio. Infatti, nulla che non sia intaccato da qualche macchia può uscire dall'uomo più perfetto che esista al mondo. Dio chiami dunque in giudizio le migliori opere degli uomini, e in esse troverà la sua giustizia e la confusione loro.
Le buone opere dunque piacciono a Dio, e non sono inutili a coloro che le fanno; esse ricevono, come ricompensa, grandissimi benefici da Dio; non che lo meritino, ma la benignità del Signore conferisce loro un tal premio. Che ingratitudine è se, non contenti che Dio con la sua generosità remuneri le opere con una ricompensa non dovuta e non legata ad alcun merito, per maledetta ambizione, vorranno dimostrarsi ingrati al punto di pretendere che quel che deriva dalla pura bontà di Dio sia dovuto al merito delle opere?
Mi appello qui al buon senso di ognuno. Se uno al quale è dato l'usufrutto di un campo, volesse attribuirsi il titolo di proprietà, non meriterebbe forse, per una tal ingratitudine, di perdere anche il possesso che aveva? Se uno schiavo reso libero dal suo padrone non volesse riconoscere la sua condizione, ma si attribuisse la condizione di esser nato libero, non meriterebbe forse di esser ricondotto in servitù? Ecco il modo giusto e legittimo di usare dei favori che ci sono stati fatti: non pretendere più di quanto ci è dato e non frodare il nostro benefattore della sua lode, ma comportarci in modo tale che quel che ci ha trasmesso paia in qualche modo risiedere in lui. Se dobbiamo avere questa umiltà di fronte agli uomini, quanto più dobbiamo averla di fronte a Dio.
4. So bene che i Sofisti abusano di qualche passo per provare che il termine "merito "si trova nella Scrittura. Citano una affermazione dell'ecclesiastico: "La misericordia prenderà in considerazione ognuno secondo il merito delle sue opere " (Ecclesiaste 16.14). E dall'epistola agli Ebrei: "Non dimenticate la beneficenza ed il mettere in comune i beni, poiché tali offerte meritano la grazia di Dio " (Eb. 13.16).
L'Ecclesiastico non fa parte del canone; mi asterrò dunque dal contestare il valore della citazione, faccio però notare loro che non citano fedelmente le sue parole, poiché così dice il greco, parola per parola: Dio prenderà in considerazione ogni misericordia; ognuno troverà secondo le sue opere. Che questo sia il significato ovvio e che il passo sia stato corrotto nella traduzione latina, lo si può vedere tranquillamente sia da quel che segue, sia dall'affermazione stessa, se presa in se. Quanto all'epistola agli Ebrei, non fanno che cavillare, visto che il termine greco di cui si serve l'Apostolo altro non significa se non: tali offerte sono gradite a Dio. Ciò basterà ad abbattere e reprimere ogni orgoglio insolente in noi, se non oltrepassiamo il limite della Scrittura per attribuire qualche dignità alle opere. La Scrittura insegna che le nostre opere sono intaccate da parecchie macchie, da cui Dio sarebbe, a buon diritto, offeso contro di noi; altro che poterci acquistare la sua grazia ed il suo favore, o spingerlo a farci del bene! Tuttavia, rifiutando nella sua grande clemenza di esaminarle con rigore, le accetta come purissime e perciò le ricompensa con infiniti benefici sia nella vita presente sia nella vita futura, benché esse non l'abbiano meritato. Infatti non posso accettare la distinzione fatta da alcuni dotti secondo la quale le buone opere sono meritorie delle grazie che Dio ci dà in questa vita, ma la salvezza eterna è la ricompensa della sola fede, visto che il Signore ci promette che la ricompensa delle nostre fatiche e la corona della nostra battaglia sono in cielo.
D'altra parte, attribuire al merito delle opere il fatto che, giornalmente, riceviamo nuove grazie da Dio, sottraendo questo alla grazia, contraddice l'insegnamento della Scrittura. Cristo dice che sarà dato in sovrappiù a colui che ha, e che il buon servitore, comportatosi fedelmente nelle piccole cose, sarà stabilito su cose più grandi (Mt. 25.21-29) , ma dimostra altresì che i progressi dei credenti sono doni della sua gratuita benignità. "Voi tutti che avete sete "dice "venite all'acqua; e voi che non avete denaro, venite e prendete senza denaro e senza il minimo compenso vino e latte " (Is. 55.1). Perciò tutto quel che è dato ai credenti per l'avanzamento della loro salvezza è pura bontà di Dio, come la beatitudine eterna. Ma, sia nelle grazie che ci largisce nel tempo presente, sia nella gloria futura, dice che tiene in qualche considerazione le nostre opere; per attestarci il suo amore infinito, gli piace non solo di onorare noi, in questo modo, ma anche i benefici che abbiamo ricevuto dalla sua mano.
5. Se queste cose fossero state trattate ed esposte in passato nell'ordine a loro confacente, non sarebbero mai sorti tanti sconvolgimenti e dissensi.
Per ben edificare la chiesa, san Paolo dice che dobbiamo tener fermo l'unico fondamento da lui posto fra i Corinzi, cioè Gesù Cristo (1 Co. 3.10). Di che natura è il fondamento che abbiamo in Cristo? È egli stato l'inizio della nostra salvezza affinché il compimento seguisse per opera nostra? Ci ha forse solo aperto la strada affinché dopo lo seguissimo con le nostre forze? No, di certo, ma quando riconosciamo che ci è dato quale giustizia (1 Co. 1.30) , come aveva detto prima. Nessuno dunque è ben radicato in Cristo se la sua giustizia non risiede interamente in lui, dato che l'Apostolo non dice che egli è stato mandato per aiutarci ad ottenere la giustizia, ma per essere la nostra giustizia, cioè in quanto da ogni eternità, prima della creazione del mondo, siamo stati scelti in lui non già in base a qualche merito, ma secondo il libero volere di Dio (Ef. 1.4); per mezzo della sua morte siamo stati riscattati dalla condanna a morte e liberati dalla perdizione (Cl. 1.14-20); in lui siamo stati adottati dal Padre celeste per essere i suoi figli ed eredi (Gv. 1.12); per mezzo del suo sangue siamo stati riconciliati con Dio (Ro 5.9-10); salvaguardati da lui, siamo liberati dal pericolo di morire (Gv. 10.28); incorporati a lui, siamo già in qualche modo partecipi della vita eterna, essendo entrati in speranza nel regno di Dio. Non è tutto: accolti nella sua comunione, seppure ancora pazzi in noi stessi, egli è per noi saggezza dinanzi a Dio; seppur peccatori, egli è per noi giustizia; impuri, egli è per noi purificazione; deboli e privi di forze e di armatura per resistere al diavolo, la potenza, che gli è stata data in cielo e sulla terra per spezzare il male ed infrangere le porte dell'inferno, ci appartiene (Mt. 28.18); sebbene portiamo ancora un corpo mortale, egli è per noi vita (2 Co. 4.10). Tutti i suoi beni insomma sono nostri, in lui abbiamo tutto ed in noi nulla. Dobbiamo dunque essere edificati su questo fondamento, se vogliamo essere dei templi consacrati a Dio (Ef. 2.21-22).
6. Ma il mondo ha da tempo ricevuto un insegnamento ben diverso. Si sono scoperte non so quali opere morali per rendere gli uomini graditi a Dio prima che siano incorporati a Cristo. Come se la Scrittura mentisse, quando dice che sono morti tutti coloro che non possiedono il Figlio (1 Gv. 5.12). Se sono morti, come potrebbero generare vita? Sarebbe stato detto invano che tutto quello che è estraneo alla fede è peccato (Ro 14.23); come potrebbero uscire buoni frutti da un albero cattivo?
Che cosa questi malvagi Sofisti hanno lasciato a Cristo, in cui egli manifesti la sua potenza? Dicono che ci ha meritato la prima grazia, cioè l'occasione di meritare, ma che a noi tocca ora non perdere l'occasione dataci. Che impudenza, e quanto sfrenata! Chi si sarebbe aspettato che coloro, che si dicono cristiani, privassero a tal punto Gesù Cristo della sua potenza da calpestarlo? Tutta la Scrittura gli rende testimonianza che sono giustificati tutti coloro che credono in lui, e quelle canaglie insegnano che non ci proviene da lui altro beneficio, se non quello di averci aperto la possibilità di giustificarci.
O se potessero afferrare il significato di queste affermazioni: chiunque ha il figlio di Dio, ha anche la vita (1 Gv. 5.12); chiunque crede, è passato dalla morte alla vita (Gv. 5.24) , ed è giustificato dalla sua grazia per esser fatto erede della vita eterna (Ro 3.24); Cristo abita in lui (1 Gv. 3.24) affinché sia unito a Dio per mezzo suo; è partecipe della sua vita, è seduto in cielo con lui (Ef. 2.6); è già trasferito nel regno di Dio (Cl. 1.13) ed ha ottenuto salvezza, ed altre innumerevoli simili affermazioni. Esse non significano soltanto che la possibilità di acquistare giustizia o salvezza ci proviene da Gesù Cristo, ma che l'una e l'altra ci sono date in lui. Di conseguenza, non appena siamo per fede incorporati a Cristo, diventiamo figli di Dio, eredi del cielo, partecipi della sua giustizia, possessori della vita, e per redarguire le loro menzogne affermiamo che non abbiamo solo ottenuto l'occasione di meritare, ma tutti i meriti di Cristo, che ci sono trasmessi.
7. Ecco come i Sofisti delle scuole sorboniche, madri di tutti gli errori, hanno distrutto l'intera giustificazione per mezzo della fede, fulcro di ogni pietà. Riconoscono sì, a parole, che l'uomo è giustificato per mezzo della fede formata; ma in seguito affermano che è perché le opere prendono dalla fede il valore ed il potere di giustificare: al punto che sembrano citare la fede solo per beffa, in quanto non potevano tacerla del tutto visto che essa è così spesso menzionata nella Scrittura.
Non contenti di questo sottraggono a Dio una parte del merito delle buone opere per trasferirlo all'uomo. Vedendo che le buone opere non hanno molta possibilità di esaltare l'uomo, anzi, in quanto si devono considerare frutti della grazia di Dio, non devono essere propriamente definite meriti, le fanno derivare dalla possibilità del libero arbitrio, cioè come l'olio da una pietra. È vero che non negano che la causa principale derivi dalla grazia; ma non ammettono che sia escluso il libero arbitrio da cui procede, come dicono, ogni merito.
Non soltanto i nuovi Sofisti, ma il loro grande maestro Pietro Lombardo dice altrettanto, il quale, in confronto agli altri, è molto sobrio e meno estremista. È certo indice di stupefacente accecamento il leggere sant'Agostino, che egli cita così spesso, e il non vedere con quale sollecitudine questo santo personaggio evita di attribuire all'uomo un sol briciolo di lode per le buone opere.
Trattando del libero arbitrio, abbiamo precedentemente citato alcune delle sue testimonianze a questo proposito, e se ne troveranno mille altre simili nei suoi scritti. Come quando ci proibisce di mettere innanzi i nostri meriti per attribuirci qualcosa, in quanto essi stessi sono doni di Dio; e quando dice che tutto il nostro merito proviene dalla grazia, e che ci è dato interamente per mezzo suo, non acquisito dalla nostra sufficienza.
Non fa gran meraviglia che il citato Lombardo non sia stato illuminato dalla luce della Scrittura, in quanto non ne era molto esperto. Non si potrebbe tuttavia desiderare contro di lui e contro tutto il suo seguito una affermazione più chiara di quella di san Paolo, quando dopo aver proibito ai cristiani ogni gloria, aggiunge il motivo per cui non è loro lecito gloriarsi: "Infatti siamo "dice "l'opera di Dio, creati per le buone opere che egli ha preparate, affinché camminiamo in esse " (Ef. 2.10). Poiché da noi non proviene alcunché di buono se non nella misura in cui siamo rigenerati, e la nostra rigenerazione proviene tutta da Dio senza alcuna eccezione, è sacrilego attribuirci un solo granello di lode per le buone opere.
Infine, benché questi Sofisti parlino senza fine e senza interruzione delle buone opere, educano le coscienze in modo tale che esse non oserebbero mai credere che Dio sia propizio alle loro opere. Noi, al contrario, senza menzionare affatto il merito, diamo una singolare consolazione ai credenti con il nostro insegnamento, affermiamo loro che piacciono e sono graditi a Dio nel loro operare; anzi richiediamo che nessuno si impegni in un'opera senza la fede, senza cioè aver determinato per certo in cuor suo che essa piacerà a Dio.
8. Non tolleriamo dunque, per nessuna ragione, che ci si allontani da quel fondamento, sia pure di un solo millimetro: su di esso, infatti, deve riposare tutto ciò che appartiene all'edificazione della Chiesa.
Così tutti i servi di Dio, a cui egli ha dato l'incarico di edificare il suo regno, avendo posto questo fondamento, quando sono necessari insegnamenti ed esortazioni, ricordano che il figlio di Dio è apparso per distruggere le opere del diavolo affinché coloro che sono di Dio non pecchino più (1 Gv. 3.8); che è sufficiente aver seguito in passato i desideri del mondo (1 Pi. 4.3); che gli eletti di Dio sono strumenti della sua misericordia, e messi a parte per ricevere onore: perciò devono essere purificati da ogni sozzura (2Ti 2.20).
Ma ogni cosa è inclusa nell'affermazione che Cristo vuole avere dei discepoli che, avendo rinunciato a se stessi e presa la loro croce per portarla, lo seguano (Lu 9.23). Colui che ha rinunciato a se stesso ha già tagliato alla radice tutti i mali, cioè non cerca più quel che gli piace. Colui che ha preso la sua croce per portarla, si è disposto ad ogni pazienza e mansuetudine. Ma l'esempio di Cristo include e queste cose e tutti gli altri compiti della pietà e della santità. Infatti si è reso ubbidiente a suo Padre fino alla morte; è stato interamente occupato a portare a termine le opere di Dio con tutto il suo cuore; ha cercato di esaltarne la gloria; ha abbandonato la sua vita per i fratelli; ha reso bene per male ai suoi nemici.
Se sono necessarie delle consolazioni, gli stessi servitori di Dio ne danno di singolari: sopportiamo le tribolazioni ma non ne siamo angosciati; siamo in povertà ma non siamo spogliati; sopportiamo grandi assalti, ma non siamo abbandonati; siamo come abbattuti ma non periamo; portiamo la morte di Gesù Cristo nel nostro corpo affinché la sua vita sia manifestata in noi (2 Co. 4.8-10). Se siamo morti con lui, con lui altresì vivremo; se sopportiamo con lui, con lui del pari regneremo (2Ti 2.2). Siamo resi conformi a lui nelle sue sofferenze, fino a che giungiamo ad una risurrezione simile alla sua (Fl. 3.10) avendo il Padre ordinato che tutti coloro che egli ha scelti in Cristo siano resi conformi alla sua immagine, affinché sia il primogenito fra tutti i suoi fratelli (Ro 8.29). Pertanto, né avversità, né morte, né cose presenti o future possono separarci dall'amore che Dio ha per noi in Cristo (Ro 8.39). Tutto quel che ci accadrà si volgerà per noi a bene ed a salvezza.
Secondo questo insegnamento, non giustifichiamo l'uomo dinanzi a Dio per mezzo delle sue opere, ma affermiamo che tutti coloro che sono da Dio sono rigenerati e fatti nuove creature, affinché per mezzo di simili testimonianze rendano certa la loro vocazione (2 Pi. 1.10) e, come alberi, siano giudicati dai loro frutti.
CAPITOLO 16
COLORO CHE SI SFORZANO DI METTERE IN CATTIVA LUCE QUESTO INSEGNAMENTO RICORRONO, NEI LORO ARGOMENTI, ALLA CALUNNIA
1. Abbiamo così confutate le tesi di quei malvagi che spudoratamente ci accusano di abolire le buone opere e distoglierne gli uomini, quando insegniamo che per mezzo di esse nessuno è giustificato e merita la salvezza. In secondo luogo, di rendere troppo agevole il cammino della giustizia, quando diciamo che essa risiede nella remissione gratuita dei nostri peccati e, per mezzo di questa adulazione, di spingere a compiere il male gli uomini per natura già troppo inclini ad esso. Queste calunnie sono sufficientemente confutate da quel che abbiamo detto: risponderò tuttavia brevemente all'una e all'altra.
Essi affermano che il predicare la giustificazione per fede distrugge le buone opere. Al contrario, non è forse un modo per concretarle e consolidarle? Infatti non pensiamo minimamente ad una fede priva di ogni buona opera o ad una giustificazione che possa sussistere senza di loro; ma il punto della questione è questo: pur riconoscendo che la fede e le buone opere sono necessariamente congiunte, tuttavia situiamo la giustizia nella fede, e non nelle opere. Perché questo? È: facile da spiegare, a condizione che guardiamo a Cristo, cui la fede si rivolge, e da cui trae tutta la sua forza. Da dove viene il nostro esser giustificati per mezzo della fede? È perché per mezzo suo afferriamo la giustizia di Cristo, la quale sola ci riconcilia con Dio. Ma non possiamo afferrare questa giustizia prescindendo dalla santificazione. Quando è detto che Cristo ci è redenzione, sapienza e giustizia, è anche aggiunto che è per noi santificazione (1 Co. 1.30).
Ne consegue che Cristo non giustifica nessuno senza contemporaneamente santificarlo. Infatti questi benefici sono congiunti fra loro con un legame perenne, per cui, quando ci illumina con la sua saggezza, ci riscatta; quando ci riscatta, ci giustifica; quando ci giustifica, ci santifica. Ma poiché ora stiamo trattando della giustizia e della santificazione, fermiamoci a questi due punti. Sono certo da distinguere, tuttavia Cristo contiene in maniera inseparabile l'una e l'altra. Vogliamo dunque ricevere giustizia in Cristo? Dobbiamo in primo luogo possedere Cristo. Orbene non lo possiamo possedere senza essere partecipi della sua santificazione, visto che egli non può essere strappato a pezzi. Poiché il Signor Gesù non concede mai a nessuno di godere dei suoi beni se non dando se stesso, elargisce le due cose insieme e mai l'una senza l'altra. Da ciò appare quanto sia vero questo insegnamento: non siamo giustificati senza le opere, benché non sia per mezzo loro, in quanto il partecipare a Cristo, in cui consiste la nostra giustizia, implica la nostra santificazione.
2. È altresì menzogna l'affermare che distogliamo i cuori degli uomini dalla disposizione a ben fare, privandoli del desiderio di meritare.
Affermando che nessuno si preoccuperà di vivere rettamente se non spera qualche ricompensa, sbagliano gravemente: se ci si limita a desiderare che gli uomini servano Dio come mercenari, per ottenere un compenso vendendogli il loro servizio, non si sono fatti molti passi avanti. Egli vuol essere onorato, amato con sincera disposizione di cuore e gradisce quel servo che, pur privo della speranza di ricompensa, non cesserebbe di servirlo.
Se è necessario incitare gli uomini a bene oprare, il miglior sprone per pungerli è quello di indicare loro il fine della loro redenzione e della loro vocazione. È quel che fa la Parola di Dio quando dice che le nostre coscienze sono pulite dalle opere morte per mezzo del sangue di Cristo affinché serviamo il Dio vivente (Eb. 9.14) , che siamo liberati dalla mano dei nostri nemici affinché camminiamo dinanzi a Dio in giustizia e santità tutti i giorni della nostra vita (Lu 1.74); che la grazia di Dio è apparsa affinché, rinunciando ad ogni empietà e mondano desiderio, viviamo sobriamente, santamente e religiosamente in questo mondo, aspettando la felice speranza e la rivelazione della gloria del nostro gran Dio e salvatore (Tt 2.11-13); che non siamo chiamati per provocare la collera di Dio contro di noi, ma per ottenere la salvezza in Cristo (1 Ts. 5.9); che siamo i templi dello Spirito Santo, e non è lecito insozzarli (1 Co. 3.16; Ef. 2.21; 2 Co. 6.16; che non siamo tenebre, ma luce di Dio e che, di conseguenza, dobbiamo camminare come figli della luce (Ef. 5.8); che non siamo chiamati all'impurità ma alla santità e che la volontà di Dio è la nostra santificazione, affinché ci asteniamo da ogni desiderio perverso (1 Ts. 4.3.7); che, la nostra vocazione essendo santa, non possiamo rispondervi che in purezza di vita; che siamo stati liberati dal peccato per ubbidire alla giustizia (Ro 6.18).
C'era forse argomento più vivo, per incitarci alla carità, di quello di cui si serve san Giovanni? Che ci amiamo reciprocamente come Dio ci ha amati; in ciò differiscono i figli di Dio dai figli del diavolo, i figli della luce dai figli delle tenebre, perché perseverano nell'amore (1 Gv. 4.2). È l'argomento di cui si serve anche san Paolo: se aderiamo a Cristo, siamo membri di un sol corpo e dunque dobbiamo impegnarci ad aiutarci reciprocamente (Ro 12.4; 1 Co. 12.12). Potevamo forse avere miglior esortazione alla santità, di quel che dice san Giovanni, che tutti coloro che sperano nella vita si santifichino, poiché Dio è santo? (1 Gv. 3.3). E per bocca di san Paolo, quando dice che, avendo ricevuto la promessa di adozione, ci sforziamo di purificarci da ogni iniquità dello spirito e della carne? (2 Co. 7.1). Così Cristo dice che si propone a noi come esempio, affinché seguiamo i suoi passi (Gv. 13.15).
3. Ho voluto citare brevemente questi passi come esempi, poiché se volessi radunare tutti quelli simili, dovrei compilare un lungo volume. Gli Apostoli pur così preoccupati di esortare, rimostrare, riprendere, per istruire l'uomo di Dio ad ogni buona opera, non menzionano affatto il merito. Anzi, traggono i loro principali argomenti dal fatto che la nostra salvezza risiede nella misericordia di Dio, senza che abbiamo meritato nulla. Come san Paolo quando, dopo aver insegnato in tutta l'Epistola che non abbiamo alcuna speranza di salvezza se non nella grazia di Cristo, nella parte esortativa fonda il suo insegnamento sulla misericordia che aveva predicata (Ro 12.1). A dire il vero dovremmo esser spinti a ben vivere dal solo desiderio che Dio sia glorificato in noi (Mt. 5.16). E se alcuni non si dimostrano toccati dalla gloria di Dio, il ricordo dei suoi benefici dovrebbe incitarli in misura sufficiente.
Ma questi farisei, esaltando i meriti, strappano al popolo quasi con la forza, qualche opera servile ed affermano falsamente che noi non abbiamo nulla per esortare a buone opere, poiché non seguiamo il loro andazzo. Come se Dio amasse le opere fatte per costrizione, mentre dichiara di non accettare altro sacrificio se non quello che proviene da una sincera volontà, e proibisce di dar qualcosa con tristezza, o per costrizione (2 Co. 9.7).
Non dico questo perché io respinga o disprezzi il modo di esortare di cui si serve spesso la Scrittura, al fine di non tralasciare alcun mezzo per svegliare la nostra pigrizia, proponendoci la ricompensa che Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere (Ro 2.6) , ma nego che non ve ne siano altri, e che quello sia il principale; Anzi contesto che si debba cominciare di lì e riaffermo che ciò non serve a creare dei meriti, nel modo voluto dai nostri avversari, come vedremo in seguito. Infine, ciò non gioverebbe a nulla, a meno di insegnare anzitutto che siamo giustificati dal solo merito di Cristo, al quale partecipiamo per mezzo della fede e non per qualche merito delle nostre opere Nessuno infatti è disposto a vivere santamente se non ha in primo luogo accolto e ben assimilato questo insegnamento. Lo dice anche il Profeta quando, parlando a Dio, dice: "C'è perdono presso di te, Signore, affinché tu sia temuto " (Sl. 130.4). Dimostra che non esiste alcun timore di Dio fra gli uomini, se la sua misericordia, che ne è il fondamento, non è prima conosciuta. La misericordia di Dio è il principio per servirlo bene e rettamente; il timor di Dio, che i Papisti ritengono essere meritorio di salvezza, non può essere considerato un merito, perché è fondato sulla remissione dei peccati.
4. È assurda la calunnia secondo cui, Cl. Predicare la remissione gratuita dei peccati nella quale riponiamo ogni giustizia, spingiamo gli uomini a peccare. Noi le attribuiamo anzi un così gran valore, che essa non può essere controbilanciata da alcun bene derivante da noi, e di conseguenza non la potremmo ottenere se non fosse gratuita. Diciamo che essa è per noi gratuita, ma non lo è per Cristo, a cui è costata carissimo: infatti l'ha riscattata Cl. Suo prezioso e sacro sangue, perché nessun altro prezzo poteva soddisfare il giudizio di Dio.
Insegnando questo agli uomini, ricordiamo loro che non possono impedire a questo sacro sangue di essere sparso ogni volta che peccano. Per di più, facciamo loro vedere che la corruzione del peccato è tale, che non può essere lavata se non da questa sola fonte. Comprendendo ciò, non concepiranno forse un maggior orrore del peccato che dicendo loro che si possono purificare con qualche buona opera? E se hanno un certo timor di Dio, non avranno orrore di continuare a rotolarsi nel fango dopo esser stati purificati, per intorbidare, per quanto sta in loro, e inquinare la purissima fonte nella quale trovano la loro purificazione? "Ho lavato i miei piedi ", dice l'anima credente di Salomone, "come li sporcherò di nuovo? " (So 5.3). Ora è chiaro chi svilisce maggiormente la remissione dei peccati, e chi annienta maggiormente la dignità della giustizia. I nostri avversari cianciano che si può appagare Dio per mezzo di non so quali frivole espiazioni, cioè per mezzo di sterco. Noi, invece, diciamo che l'offesa del peccato è troppo grave per potersi compensare con simili chiacchiere, che anche la collera di Dio è troppo grave, per poter essere placata con leggerezza; dunque, che questo onore e questa prerogativa appartengono soltanto al sangue di Cristo. Dicono che la giustizia, se viene meno in qualche punto, può essere restaurata per mezzo di opere riparatrici. Noi, invece, affermiamo che e troppo preziosa per poter essere acquistata così facilmente, e che pertanto, la possiamo ritrovare solo avendo il nostro rifugio nella misericordia di Dio.
Il resto, che concerne la remissione dei peccati, sarà trattato nel prossimo capitolo.
CAPITOLO 17
ACCORDO FRA LE PROMESSE DELLA LEGGE E DELL'EVANGELO
1. Proseguiamo l'esame degli argomenti con cui Satana tenta di distruggere o diminuire, attraverso i suoi satelliti, la giustificazione per mezzo della fede.
Penso sia già sottratta ai calunniatori la possibilità di presentarci come nemici delle buone opere. Infatti neghiamo che le opere giustificano, non affinché non se ne compiano o non si tengano in alcun conto, ma semplicemente perché non si confidi in loro, non ci si glori di loro, non si attribuisca loro la salvezza. La nostra fiducia, la nostra gloria e l'unico porto della nostra salvezza è infatti Gesù Cristo, il figlio di Dio, che è nostro ed in cui noi siamo figli di Dio ed eredi del regno celeste, chiamati alla speranza della beatitudine eterna, non già secondo la nostra dignità, ma secondo la benignità di Dio. Tuttavia, poiché ci assalgono ancora con altri argomenti, continuiamo a tener testa ai loro colpi.
Anzitutto, essi mettono avanti le promesse della Legge, che Dio ha fatte a coloro che la osservano; e ci chiedono se le consideriamo vane o di qualche valore. Dato che sarebbe sragionevole definirle vane, danno per certo il loro valore, e da ciò deducono che non siamo giustificati dalla sola fede, visto che il Signore parla in questo modo: "Se ascolti le mie prescrizioni, e le tieni a mente per metterle in pratica, il Signore ti manterrà la sua promessa, che ha giurato ai tuoi padri; ti amerà e ti moltiplicherà, e ti benedirà " (De 7.12-13). E: "Se raddrizzi le tue vie, senza piegarti agli dei stranieri, e pratichi la giustizia e la rettitudine, e non ti rivolgi al male, io abiterò con te " (Gr. 7.5-23). Non voglio citare mille altri passi, che potrebbero essere spiegati in modo analogo, visto che non differiscono da questi nel loro significato. L'argomento centrale è questo: Mosè attesta che la benedizione e la maledizione, la vita e la morte ci sono presentate nella Legge (De 11.26; 30.15). Bisogna dunque, secondo loro, che o rendiamo questa benedizione oziosa e sterile, oppure che confessiamo che la giustificazione non risiede nella fede soltanto.
Abbiamo precedentemente indicato che, dimorando nella Legge, esclusi da ogni benedizione, siamo avvolti nella maledizione denunciata per tutti i trasgressori (De 27.26). Infatti Dio non promette nulla se non a colui che osserva perfettamente la sua Legge, e questo non accade a nessun uomo al mondo. Rimane dunque sempre chiaro che la Legge sottopone tutto il genere umano alla maledizione e alla collera di Dio; e se vogliamo essere liberati da essa dobbiamo essere sottratti alla autorità della Legge ed essere trasferiti dalla servitù alla libertà. Non già in una libertà secondo la carne, che ci allontana dalla obbedienza della Legge e ci convoglia verso la dissolutezza e la licenza, allentando la briglia alle nostre concupiscenze scatenate, ma una libertà secondo lo Spirito, che consola e rende stabile la coscienza turbata e spaventata, indicandole che è liberata dalla maledizione e dalla condanna in cui la Legge la tiene prigioniera. Otteniamo questa liberazione quando, per mezzo della fede, afferriamo la misericordia di Dio in Cristo, e da essa siamo resi certi e sicuri della remissione dei peccati, del cui ricordo invece la Legge ci opprimeva e tormentava.
2. Per questo motivo, le promesse stesse che ci sono offerte nella Legge sarebbero infruttuose e prive di significato se la bontà di Dio non ci soccorresse con l'Evangelo. La condizione che compiamo la volontà di Dio, da cui esse dipendono, non si verificherà mai. Orbene il Signore ci viene in aiuto non già attribuendo una parte di giustizia alle nostre opere e supplendo quel che manca con la sua benignità, ma dando soltanto il suo Cristo quale compimento della giustizia. Infatti l'Apostolo, dopo aver detto che lui e tutti gli altri Giudei, consapevoli del fatto che l'uomo non può essere giustificato per mezzo delle opere della Legge, avevano creduto in Gesù Cristo, ne aggiunge il motivo: non già affinché fossero aiutati dalla fede in Cristo ad ottenere una perfetta giustizia, ma per essere giustificati senza le opere della Legge (Ga 2.16). Se i credenti si staccano dalla Legge e vengono alla fede per ottenere la giustizia, che non trovano nella Legge, rinunciano certo alla giustizia delle opere. Possiamo dunque sottolineare finché vogliamo le ricompense annunciate dalla Legge per coloro che la osservano, a condizione che si consideri pure che la nostra perversità fa sì che non ne riceviamo alcun frutto se non abbiamo prima ottenuto un'altra giustizia.
Così Davide, dopo aver parlato della ricompensa che Dio ha preparato per i suoi servitori, subito si volge al riconoscimento dei peccati, dai quali essa è annientata. Certo, egli indica i beni che ci dovrebbero provenire dalla Legge, ma quando aggiunge: "Chi conosce i suoi errori? " (Sl. 19.13) indica con ciò l'ostacolo che ci impedisce di goderne. Similmente in un altro passo, dopo aver detto che tutte le vie del Signore sono bontà e verità per coloro che lo temono, aggiunge: "A motivo del tuo nome, Signore, tu sarai benigno verso la mia iniquità, poiché essa è molto grande " (Sl. 25.10-11). Dobbiamo dunque riconoscere che la Legge ci presenta la benevolenza di Dio, se la potessimo acquistare per mezzo delle nostre opere; ma, per merito loro, non la otterremo mai.
3. Qualcuno obietterà: le promesse della Legge sono date invano, per dissolversi nel nulla? Ho già dichiarato che non è questo il mio pensiero; affermo che la loro efficacia non giunge a noi fintantoché esse sono riferite al merito delle opere e che, di conseguenza, se le si considera in se stesse sono, in qualche modo, abolite.
In questo senso l'Apostolo afferma che quella bella promessa, in cui Dio dice che ci ha dato delle buone prescrizioni per far vivere coloro che le compiranno (Ro 10.5; Le 18.5; Ez. 20.2) , non ha alcuna importanza se ci fermiamo ad essa, e che non ci gioverà più di quanto farebbe se non ci fosse stata data. Infatti quel che essa richiede non concerne neppure i più santi servitori di Dio, che sono tutti molto lontani dall'adempimento della Legge, e sono circondati da molte trasgressioni. Ma quando le promesse dell'evangelo assumono valore ed annunciano il perdono gratuito dei peccati, esse non solo ci rendono graditi a Dio, ma anche fanno sì che le nostre opere gli piacciano; e non soltanto affinché egli le accetti, ma affinché le ricompensi con le benedizioni che erano dovute alla completa osservanza della Legge, in base al patto che aveva stabilito.
Riconosco dunque che la ricompensa promessa dal Signore nella sua legge a tutti coloro che osservano giustizia e santità, è data alle opere dei credenti; ma in quella ricompensa bisogna considerare attentamente per quale ragione le opere sono gradite. Orbene, tre sono le cause.
La prima è che il Signore, distogliendo il suo sguardo dalle opere dei suoi servitori, che meritano sempre biasimo più che lode, li accoglie e riceve nel suo Cristo e, per mezzo della sola fede, senza alcun aiuto delle opere, li riconcilia a sé.

La seconda è che, per sua benignità paterna e indulgente concede alle loro opere, senza considerare se ne sono degne o meno, l'onore di tenerle in una certa considerazione e stima.
La terza è che egli riceve queste opere con misericordia, senza tener conto dell'imperfezione insita in loro, che le infanga al punto che meriterebbero di essere annoverate fra i peccati anziché fra le virtù.
I Sofisti della Sorbona si sono ingannati pensando risolvere il problema dicendo che le opere sono valide, per meritare la salvezza, non in base alla loro bontà intrinseca, ma perché Dio con la sua benignità vuol ritenerle tali. Ma essi non hanno osservato quanto le opere che pretendono meritorie sono lontane dalla condizione richiesta nelle promesse della Legge, a meno che non siano state precedute dalla giustificazione gratuita fondata sulla sola fede, e dal perdono dei peccati, per mezzo del quale anche le buone opere devono essere mondate dalle loro macchie. Perciò, delle tre cause addotte che fanno sì che le opere dei credenti siano accettate da Dio, ne hanno sottolineata una sola, tacendo sulle altre due, che sono le principali.
4. Essi citano l'affermazione di san Pietro, riferita da san Luca nel libro degli Atti: "In verità, trovo che Dio non ha riguardo alla qualità delle persone ma, in ogni nazione, colui che opera la giustizia gli è gradito " (At. 10.34). Da queste parole essi pensano dedurre un argomento valido: se l'uomo acquista favore di fronte a Dio per mezzo di opere buone, l'ottenere la salvezza non è opera della sola grazia di Dio; piuttosto, Dio viene a tal punto in aiuto al peccatore con la sua misericordia, da essere spinto a fare ciò per le buone opere di costui. Molte affermazioni della Scrittura non si possono assolutamente comprendere se non consideriamo un duplice modo di essere dell'uomo davanti a Dio. Infatti in base a quello che l'uomo è per sua natura, Dio non trova in lui nulla che lo spinga alla misericordia, se non pura miseria. Se dunque è noto che l'uomo quando per la prima volta è ricevuto da Dio è vuoto e spoglio di ogni bene, ma carico e pieno di ogni genere di mali, per quale virtù diremo noi che egli è degno della chiamata di Dio? Pertanto sia respinta ogni vana fantasticheria sul merito, dato che il Signore ci dimostra così apertamente la sua clemenza gratuita. Quello che nel medesimo passo l'angelo dice a Cornelio, che cioè le sue preghiere ed elemosine erano state gradite da Dio, è perversamente distorto da costoro, per provare che l'uomo è preparato dalle buone opere a ricevere la grazia di Dio. Bisognava che Cornelio fosse già illuminato dallo Spirito di saggezza, dato che era istruito nella vera saggezza, cioè nel timor di Dio. Era parimenti necessario che fosse santificato dal medesimo Spirito, poiché amava la giustizia che, come dice l'Apostolo, è frutto di esso (Ga 5.5). Riceveva dunque dalla grazia di Dio, lungi dall'essere pronto a riceverle per suo merito, tutte le cose che in lui erano gradite a Dio. Certo non si potrebbe addurre una sola sillaba della Scrittura, la quale non concordi con questo insegnamento: Dio non ha altro motivo per accogliere l'uomo nel suo amore se non perché lo vede del tutto perso, se è abbandonato a se stesso. Non volendolo lasciare nella perdizione, esercita la sua misericordia Cl. Liberarlo. Si vede dunque che questa accettazione non deriva dalla giustizia dell'uomo, ma è pura testimonianza della bontà di Dio verso i miseri peccatori, i quali altrimenti sono più che indegni di un tal beneficio.

5. Dio, dopo aver tratto fuori l'uomo da un simile abisso di perdizione, lo ha messo a parte per mezzo della grazia che gli ha fatto adottandolo, lo ha rigenerato e riformato in una nuova vita, e lo riceve accogliendolo come nuova creatura, con i doni del suo Spirito. Questa è l'accettazione di cui parla san Pietro. I credenti, dopo la loro chiamata, sono graditi a Dio, anche riguardo alle loro opere (1 Pi. 2.5) , poiché Dio non può non amare i beni che ha dato loro per mezzo del suo Spirito.
Non dobbiamo dimenticare che essi sono accettevoli a Dio riguardo alle loro opere, unicamente nella misura in cui Dio, a motivo dell'amore gratuito che ha per loro, accrescendo sempre più la sua generosità, accetta le loro opere. Da dove provengono le loro buone opere, se non dal fatto che il Signore, come li ha scelti quali strumenti di elezione, così li vuole ornare di vera purezza? (Ro 9.21). Per quale ragione sarebbero ritenute buone, come se non ci fosse nulla da ridire, se non perché questo buon padre perdona le macchie e le impurità da cui sono intaccate?
Questo, in definitiva, è il significato del passo di san Pietro: Dio ama i suoi figli, nei quali vede impressa la somiglianza del suo volto. Abbiamo precedentemente insegnato che la nostra rigenerazione è come una ricostituzione della sua immagine in noi. Poiché il Signore ama e onora a buon diritto la sua immagine ovunque egli la contempli, non senza ragione è detto che la vita dei credenti, formata e regolata dalla santità e dalla giustizia, gli è gradita. Ma i credenti, finché abitano nella loro carne mortale, sono ancora peccatori, e le loro buone opere sono appena all'inizio, abbondantemente contaminate dal peccato; Dio non può dunque essere propizio né ai suoi figli né alle loro opere, a meno che non li riceva in Cristo, piuttosto che in se stessi.
In questo senso dobbiamo intendere i passi che testimoniano che Dio è propizio e benefico verso coloro che vivono secondo giustizia. Mosè diceva agli Israeliti: "Il Signore, tuo Dio, conserva per mille generazioni la sua alleanza e la sua misericordia verso coloro che lo amano ed osservano i suoi comandamenti " (De 7.9). Questa affermazione era ripetuta fra il popolo a mo' di detto comune, come vediamo nella solenne preghiera di Salomone: "Signore, Dio di Israele, che conservi l'alleanza e la misericordia verso i tuoi servitori che camminano dinanzi a te con tutto il cuore " (2 Re 8.23). Altrettanto è detto nella preghiera di Nehemia (Ne 1.5). La ragione è questa: come il Signore, stabilendo una alleanza per grazia, richiede in cambio dai suoi servitori santità e integrità di vita affinché la sua bontà non sia oggetto di canzonatura e di disprezzo, e affinché nessuno si glori di un vano confidare nella sua misericordia, per essere tranquillo pur camminando in maniera perversa (De 29.18) , così, dopo averli accolti nella comunione della sua alleanza, li vuole esortare con questo mezzo a compiere il loro dovere. Nondimeno l'alleanza non cessa di essere gratuita fin dall'inizio, e di rimanere tale.
Su questa linea Davide, sebbene dica di aver ricevuto la ricompensa per la purezza delle sue mani (Sl. 18.20; Il Re 22.20) , non dimentica però il principio che ho ricordato; Dio lo ha tratto fuori dal ventre materno, perché lo ha amato. Così dicendo, sottolinea il carattere buono e giusto della sua causa, senza togliere autorità alla misericordia gratuita di Dio, la quale previene tutti i beni di cui è l'origine.

6. Sarà bene, intanto, notare qual è la differenza fra affermazioni di questo tipo e le promesse della Legge. Considero promesse della Legge non tutte quelle contenute qua e là nella legge di Mosè, parecchie delle quali sono conformi all'evangelo, ma intendo quelle che si riferiscono in modo specifico all'insegnamento della Legge. Tali promesse, comunque vengano denominate, promettono remunerazione e ricompensa a condizione che facciamo quel che è comandato. Quando però è detto che il Signore mantiene la promessa della sua misericordia a coloro che l'amano, si vuole indicare chi sono i suoi servitori, che hanno accolto di cuore la sua alleanza, piuttosto che esprimere il motivo per cui Dio è loro propizio. Come il Signore ci chiama con la sua benignità alla speranza della vita eterna, per essere temuto, amato ed onorato da noi, così tutte le promesse della sua misericordia, che si leggono nella Scrittura, sono a buon diritto rivolte allo scopo di farci onorare e temere l'autore di tali benefici. Tutte le volte che udiamo che il Signore ricompensa coloro che osservano la sua legge, ricordiamoci che così facendo la Scrittura definisce in modo perenne i figli di Dio. Ricordiamoci che ci ha adottati come suoi figli, affinché lo onorassimo come nostro Padre. Per non rinunciare al diritto della nostra adozione ci dobbiamo sforzare di tendere là dove la nostra vocazione ci conduce. D'altra parte teniamo per certo che il compimento della misericordia di Dio non dipende dalle opere dei credenti; ma il compimento della promessa di salvezza, in coloro che per dirittura di vita rispondono alla loro vocazione, avviene perché Dio riconosce in loro i veri contrassegni dei suoi figli: cioè i doni dello Spirito. Dobbiamo riferire a ciò quanto è detto nel quindicesimo Salmo sui cittadini di Gerusalemme: "Signore, chi abiterà nel tuo tabernacolo, e siederà sulla tua santa montagna? Colui che è innocente nelle sue mani e puro nel suo cuore " (Sl. 15.1-2). E in Isaia: "Chi abiterà Cl. Fuoco che divora ogni cosa? Colui che si attiene alla giustizia, parla con verità, ecc. " (Is. 33.14-15) , e altri passi simili. Ciò infatti non è detto per descrivere il fondamento sul quale i credenti devono stare saldi dinanzi a Dio, ma soltanto il modo in cui li chiama nella sua comunione e li mantiene in essa. Poiché egli odia il peccato ed ama la giustizia, purifica Cl. Suo Spirito coloro che vuole congiungere a se, per renderli conformi alla sua natura. Eppure se cerchiamo la causa prima in virtù della quale ci è aperta l'entrata nel regno di Dio e ci è data la possibilità di dimorarvi, la risposta è facile: è perché il Signore ci ha una volta adottati per sua misericordia e ci mantiene sempre in questa alleanza. Se si vuol sapere il modo in cui ciò avviene, allora bisogna parlare della nostra rigenerazione e dei suoi frutti, argomento di cui si parla in quel Salmo ed altri passi.
7. Sembra molto più difficile poter dare una spiegazione dei testi che sottolineano il valore delle buone opere dando loro il titolo di giustizia e dicendo che l'uomo è giustificato per mezzo loro.
Riguardo al primo caso, sappiamo che i comandamenti di Dio sono talvolta chiamati giustificazione e giustizia.
Riguardo al secondo, abbiamo un esempio in Mosè quando dice: "Questa sarà la nostra giustizia, se osserviamo tutti questi comandamenti " (De 6.25). E se si replica che è una promessa della Legge, cui è aggiunta una condizione impossibile, ve ne sono altre di cui non si potrebbe dire altrettanto. Come quando dice: "Ti sarà imputato a giustizia il restituire al povero il pegno che ti avrà dato " (De 24.13). Similmente il Profeta dice che lo zelo dimostrato da Fineas nel vendicare l'obbrobrio di Israele, gli è stato imputato a giustizia (Sl. 106.31). Per questo i farisei del nostro tempo pensano aver di che gridare contro di noi su questo punto. Infatti quando diciamo che, essendo stabilita la giustizia per mezzo della fede, bisogna che la giustizia delle opere sia abbattuta, deducono al contrario che se la giustizia proviene dalle opere non è vero che siamo giustificati dalla sola fede.
Che i comandamenti della Legge siano chiamati "giustizia ", non fa meraviglia, poiché in effetti lo sono. I lettori devono però notare che i Greci hanno tradotto impropriamente il termine ebraico, mettendo in luogo di editti o statuti, "giustificazioni ". Tuttavia non farò una questione di termini, poiché non neghiamo alla legge di Dio la caratteristica di contenere la giustizia perfetta. Debitori di tutto quanto essa richiede, quand'anche riuscissimo a soddisfarla, saremo ancora servi inutili; ma poiché il Signore ha dato all'osservanza della Legge l'onore di chiamarla "giustizia ", non tocca a noi sottrarle quel che egli le ha dato. Riconosciamo dunque volentieri che l'ubbidire alla Legge è giustizia, che l'osservare ogni comandamento è una parte di questa giustizia, a condizione che nessuna delle altre parti venga meno. Contestiamo che una tal giustizia sia reperibile in questo mondo. Per questo motivo aboliamo la giustizia della Legge; non che, di per se, essa sia insufficiente, ma perché a causa della debolezza della nostra carne essa non si realizza mai.
Qualcuno potrà obiettare che la Scrittura non chiama "giustizia "soltanto i precetti di Dio, ma che essa attribuisce questo titolo anche alle opere dei credenti, come quando afferma che Zaccaria e sua moglie hanno osservato i comandamenti del Signore (Lu 1.6). Rispondo che, parlando in tal modo, la Scrittura stima le opere più in considerazione della natura della Legge, che per la loro entità. Inoltre la traduzione imperfetta dei Greci non deve essere vincolante per noi; ma poiché san Luca non ha voluto modificare nulla in quel che era accettato ai suoi tempi, tralascerò volentieri questo punto. È vero che il Signore, per mezzo del contenuto della sua Legge, ha indicato agli uomini qual è la giustizia; ma noi non mettiamo in atto questa giustizia, se non osservando tutta la Legge, poiché essa è corrotta da una sola trasgressione. La Legge insegna soltanto la giustizia: se guardiamo ad essa, tutti i suoi comandamenti sono giustizia. Ma se consideriamo gli uomini, essi non meriteranno lode di giustizia per aver osservato un comandamento, poiché ne trasgrediscono parecchi e non compiono, per ubbidire a Dio, alcuna opera che non sia in qualche modo viziata dalla sua imperfezione.
La nostra risposta è dunque questa: quando le opere dei santi sono definite "giustizia", questo non si riferisce ai loro meriti, ma al fatto che esse tendono alla giustizia che Dio ci ha ordinato, giustizia che è nulla se non è perfetta. Ma essa non è perfetta in alcun uomo al mondo; di conseguenza bisogna concludere che una buona opera non merita, da sola, il nome di giustizia.
8. Affronto ora la seconda categoria di passi, in cui risiede la maggior difficoltà. L'argomento più solido con cui san Paolo prova la giustizia della fede consiste nel citare quel che è scritto da Mosè, che la fede è stata imputata ad Abramo in conto di giustizia (Ga 3.6). Poiché lo zelo di Fineas, secondo il Profeta, gli è stato messo in conto di giustizia (Sl. 106.31) , quel che san Paolo deduce dalla fede lo si potrà dire anche delle opere. Da ciò i nostri avversari, come se avessero in mano la vittoria, stabiliscono che, sebbene non siamo giustificati senza fede tuttavia non siamo giustificati dalla sola fede, ma che bisogna unire ad essa le opere per completare la giustizia.

Invito tutte le persone tementi Dio, consapevoli perciò del fatto che bisogna attingere la regola della giustizia dalla sola Scrittura, di voler considerare con me, con diligenza ed umiltà di cuore, come la Scrittura non si contraddica su questo punto, a meno di ricorrere a cavilli.
San Paolo, sapendo che la giustizia della fede è un rifugio per coloro che sono privi di una loro propria giustizia, trae coraggiosamente la conclusione che chiunque è giustificato per fede è escluso dalla giustizia delle opere. Sapendo che la giustizia della fede è comune a tutti i servitori di Dio, deduce d'altra parte, con altrettanta fiducia, che nessuno è giustificato dalle opere ma, al contrario, che siamo giustificati senza alcun aiuto delle nostre opere.
Sono però cose diverse discutere sul valore delle opere in se stesse, oppure sulla considerazione in cui sono tenute dinanzi a Dio, una volta stabilita la giustizia della fede. Se si tratta di valutare le opere in base alla loro dignità, diciamo che esse sono indegne di essere presentate dinanzi a Dio, dato che non c'è uomo al mondo che trovi nelle sue opere qualcosa di cui si possa gloriare dinanzi a Dio. Ne consegue dunque che tutti, privati di ogni aiuto da parte delle loro opere, sono giustificati dalla sola fede.
Affermiamo che la giustizia consiste in questo: il peccatore, accolto nella comunione con Cristo, è per sua grazia riconciliato con Dio in quanto, purificato dal suo sangue, ottiene la remissione dei peccati, e rivestito della giustizia di Cristo come della sua propria, può sussistere dinanzi al tribunale di Dio. Stabilita la remissione dei peccati, le opere che seguono non sono giudicate in base al loro merito. Infatti quanto vi è di imperfetto in loro, è ricoperto dalla perfezione di Cristo; quanto vi è di immondo e di macchiato è nettato dalla sua purezza, per non essere giudicato. Cancellata così la colpa delle trasgressioni, la quale impediva agli uomini di produrre alcunché di gradito a Dio, sepolti i difetti e le imperfezioni da cui tutte le buone opere sono intaccate e macchiate, a quel momento le buone opere dei credenti sono considerate giuste o, se si preferisce, sono imputate a giustizia.
9. Se qualcuno mi muove una tale obiezione per attaccare la giustizia della fede, gli chiederò anzitutto se un uomo deve essere considerato giusto per due o tre opere buone, pur essendo trasgressore della Legge in tutte le altre. Questo sarebbe assurdo.
Poi gli chiederò se anche per parecchie buone opere è da considerare giusto, quando lo si può trovar colpevole in qualcosa.
E il mio avversario non oserà sostenerlo, visto che è contraddetto dall'affermazione con cui Dio dichiara maledetti coloro che non avranno compiuto tutti i precetti della Legge (De 27.26).
Faccio un passo ancora, chiedendo se c'è una sola opera buona in cui non si debba scorgere qualche impurità o imperfezione. Ma come potrebbe accadere questo dinanzi agli occhi di Dio, per i quali neanche le stelle sono pure e chiare, né gli angeli sono giusti? (Gb. 4.18).
A questo punto il mio interlocutore sarà costretto ad ammettere che non esiste alcuna buona opera la quale non sia infangata e corrotta e dalle trasgressioni che l'uomo avrà commesso in altro modo, e dalla sua propria imperfezione, e perciò non sarà degna di meritare il nome di giustizia.
Se è chiaro che dalla giustificazione per fede consegue che le opere altrimenti impure, corrotte, indegne di comparire dinanzi a Dio (e quindi lungi dall'essergli gradite ) sono invece imputate a giustizia, perché citare la giustizia delle opere per distruggere quella della fede, da cui essa è prodotta ed in cui consiste? Vorremmo forse una discendenza di serpenti, in cui i figli distruggono la madre? A questo mirano le parole dei nostri avversari. Non possono negare che la giustificazione per fede è inizio, fondamento, causa, materia, sostanza della giustizia delle opere. Tuttavia, concludono che l'uomo non è giustificato dalla fede, in quanto le buone opere sono imputate a giustizia.
Tralasciamo dunque queste chiacchiere e riconosciamo le cose come veramente sono: se tutta la giustizia che può risiedere nelle nostre opere procede e dipende dalla giustificazione per fede, non solo questa non è per nulla sminuita da quella, ma ne è piuttosto confermata, e la sua potenza appare più vasta. Inoltre è errato pensare che le opere siano a tal punto apprezzate dopo la giustificazione gratuita, da sostituirvisi per giustificare l'uomo, oppure che lo giustifichino a metà con la fede. Se infatti la giustizia della fede non permane sempre nella sua interezza, l'impurità delle opere sarà scoperta ed esse non meriteranno altro che condanna. Non è affatto assurdo dire che l'uomo è giustificato per fede e che non solo diviene giusto nella sua persona, ma che pure le sue opere sono considerate giuste senza averlo meritato.
10. Così facendo non solo ammettiamo che vi è una parte di giustizia nelle opere (come pretendono i nostri avversari ) , ma che esse sono approvate da Dio come se fossero perfette, purché ci ricordiamo su che cosa si fonda la loro giustizia, e questo risolverà ogni difficoltà. L'opera comincia infatti ad essere gradita a Dio, quando egli la riceve perdonando. Ma da dove viene questo perdono, se non dal fatto che Dio guarda attraverso Gesù Cristo le nostre persone e tutto quel che procede da noi? Come ci presentiamo giusti davanti a Dio, dopo esser stati fatti membra di Cristo, in quanto per mezzo della sua innocenza le nostre colpe sono nascoste, così le nostre opere sono considerate giuste, in quanto il peccato che è in loro, ricoperto dalla purezza di Cristo, non ci è imputato.
Possiamo dire a buon diritto che non soltanto l'uomo, ma anche le sue opere sono giustificate per mezzo della sola fede. Se questa giustizia delle opere procede in tutto e per tutto dalla fede e dalla giustificazione gratuita, non dobbiamo servircene per distruggere o per oscurare la grazia da cui dipende, ma dobbiamo piuttosto includervela e riferirvela, come il frutto all'albero.
Così san Paolo, volendo provare che la nostra beatitudine si fonda sulla misericordia di Dio e non sulle nostre opere, sottolinea con vigore quel che dice Davide: "Beati coloro ai quali le iniquità sono perdonate ed i cui peccati sono nascosti. Beato l'uomo al quale il Signore non imputa le sue colpe " (Ro 4.7; Sl. 32.1-2).
Se, al contrario, qualcuno volesse citare una serie di affermazioni che paiono fondare sulle nostre opere la beatitudine, come quando è detto: "Beato l'uomo che teme Dio (Sl. 112.1) , che ha pietà del povero afflitto (Pr 14.21) , che non ha camminato secondo il consiglio degli empi (Sl. 1.1) , che sopporta la tentazione (Gm. 1.12) , che conserva la giustizia ed il retto intendimento (Sl. 106.3). Beati i poveri nello spirito " (Mt. 5.3) , ecc tutto ciò non impedirà che quanto dice san Paolo rimanga vero. Infatti le virtù quivi elencate non sono mai tutte presenti nell'uomo, al punto da poter essere accettate da Dio per loro merito: l'uomo è sempre misero, finché non è liberato dalla sua miseria con la remissione dei peccati.
Se dunque tutte le beatitudini che la Scrittura elenca sono nulle e periscono, al punto che l'uomo non può goderne alcun frutto se non ottiene in primo luogo la beatitudine della remissione dei suoi peccati, la quale dà origine a tutte le altre benedizioni di Dio, ne deriva che una tal beatitudine gratuita non solo è sovrana e primaria, ma unica, a meno che non vogliamo che sia distrutta e abolita dalle benedizioni che traggono origine da lei sola.
Che, nella Scrittura, i credenti siano spesso detti "giusti "non ci deve turbare, né far nascere in noi qualche scrupolo. Ricevono questo titolo a motivo della santità della loro vita. Ma dato che si applicano a seguire la giustizia, più di quanto riescano a compierla, è logico che la giustizia proveniente dalle opere sia, in blocco, sottomessa a quella proveniente dalla fede, sulla quale è fondata e da cui trae la sua essenza.
11. I nostri avversari affermano inoltre che san Giacomo ci contraddice in modo inconfutabile. Infatti insegna che Abramo è stato giustificato dalle opere, e che noi pure siamo giustificati dalle opere e non dalla sola fede (Gm. 2.14).
Vogliono forse contrapporre san Giacomo e san Paolo? Se si considera san Giacomo ministro di Cristo, bisogna valutare la sua affermazione in modo che non contraddica Cristo, il quale ha parlato per bocca di san Paolo. Per bocca di san Paolo lo Spirito Santo afferma che Abramo ha ottenuto la giustizia per mezzo della fede, e non per mezzo delle sue opere, e che bisogna anche che siamo tutti giustificati senza le opere della Legge. Il medesimo Spirito dichiara per mezzo di san Giacomo, che la nostra giustizia consiste nelle opere, e non solo nella fede. È certo che lo Spirito non si contraddice. Quale sarà dunque l'accordo fra queste due affermazioni?
Basta ai nostri avversari poter sradicare la giustizia della fede, che vogliamo radicata nel profondo del cuore. Di dar riposo alle coscienze, non si preoccupano molto. Si vede dunque come si sforzano di scrollare la giustizia della fede, ma senza indicare alcuna regola certa di giustizia, a cui le coscienze si possano riferire. Trionfino dunque finché vogliono, a condizione che non si possano vantare di altra vittoria che di aver tolto ogni certezza di giustizia. Otterranno quella triste vittoria nei punti in cui, avendo spento ogni luce di verità, avranno accecato il mondo con le loro tenebre. Ma ovunque la verità di Dio rimarrà ferma, non avranno alcun vantaggio.
Contesto dunque che dia loro ragione in qualche modo l'affermazione di san Giacomo, che hanno sempre sulle labbra e che costituisce il loro grande scudo. Per eliminare questo ostacolo, dobbiamo anzitutto considerare lo scopo a cui egli tende, poi osservare in che cosa essi si ingannano
Dato che c'erano allora molte persone (questo male si riscontra sempre nella Chiesa), che mostravano la loro infedeltà disprezzando tutto quel che è proprio dei credenti, senza tuttavia cessare di gloriarsi in maniera falsa del titolo di fede, san Giacomo colpisce questa assurda pretesa. Non intende affatto, dunque, diffamare la vera fede, ma dichiarare quanto siano inetti i chiacchieroni, paghi di una vana parvenza di fede, i quali, accontentandosi di tale apparenza, conducono tuttavia una vita dissoluta.
Detto ciò, è ora facile giudicare in che cosa si sbagliano i nostri avversari; danno una interpretazione errata dei due termini "fede "e "giustificare ".
Quando san Giacomo nomina la fede, intende una credenza frivola, ben diversa dalla vera fede; e lo fa con una specie di concessione, come indica fin dall'inizio, con le parole: "A che giova, fratelli, se qualcuno dice di aver fede, ma non ha le opere? " (Gm. 2.14). Non dice: se qualcuno ha la fede senza le opere, ma: se si vanta di averla. Poi, in modo ancora più esplicito, quando definisce ironicamente questa fede peggiore della conoscenza dei diavoli; infine, chiamandola fede "morta ". Si potrà sufficientemente capire quel che intende con la definizione che ne dà: tu credi, dice, che c'è un Dio. Certo, se tutta la tua fede si limita a credere che c'è un Dio, non fa meraviglia che essa non possa giustificare. E non bisogna pensare che ciò esuli dalla fede cristiana, la cui natura è ben diversa. Infatti, in che modo la vera fede giustifica, se non unendoci a Gesù Cristo affinché, essendo fatti uno con lui, godiamo della partecipazione alla sua giustizia? Essa non giustifica dunque perché ha in qualche modo capito la divinità, ma perché fa riposare l'uomo nella certezza della misericordia di Dio.
12. Rimarremo lontani dallo scopo finché non avremo scoperto l'altro errore. Infatti pare che san Giacomo ponga una parte della nostra giustificazione nelle opere. Ma se vogliamo intenderlo conformemente a tutta la Scrittura e a se stesso, è necessario considerare su questo punto il vocabolo "giustificare "in un senso un po' diverso che in san Paolo. Infatti san Paolo si serve del verbo "giustificare "quando, cancellato il ricordo della nostra ingiustizia, siamo considerati giusti. Se san Giacomo si fosse messo in quella prospettiva, avrebbe citato a sproposito la testimonianza di Mosè, che Abramo credette in Dio e ciò gli fu messo in conto di giustizia. Di conseguenza aggiunge che Abramo ottenne giustizia per mezzo delle sue opere, in quanto non aveva esitato ad immolare il suo figlio secondo l'ordine di Dio, e che così si compì la Scrittura che afferma aver egli creduto in Dio, e che ciò gli fu messo in conto di giustizia. Se è assurdo che l'effetto preceda la sua causa, o Mosè in quel punto non dice il vero, affermando che la fede è stata messa ad Abramo in conto di giustizia, oppure non ha meritato la sua giustizia per mezzo dell'obbedienza che ha reso a Dio volendo sacrificare Isacco. Abramo è stato giustificato per la sua fede prima che Ismaele fosse concepito, e questi era già alto, prima della nascita di Isacco. Come diremo dunque che si è acquistato la giustizia per mezzo di un'obbedienza venuta molto più tardi? Perciò, o san Giacomo ha capovolto tutto l'ordine (e non è lecito pensarlo ) oppure, dicendo che è stato giustificato, non ha voluto dire che ha meritato di esser considerato giusto.
Che significa dunque tutto questo? È chiaro che parla della dichiarazione di giustizia dinanzi agli uomini, e non dell'imputazione di giustizia da parte di Dio; come se dicesse: coloro che sono giusti per fede, provano la loro giustizia per mezzo dell'obbedienza e delle buone opere, e non già per mezzo di una nuda ed immaginaria sembianza di fede. Insomma, non chiede con quali mezzi siano giustificati, ma richiede dai credenti una giustizia che si riveli attraverso le opere. E come san Paolo afferma che l'uomo è giustificato senza l'aiuto delle sue opere, così san Giacomo non ammette che colui che si dice giusto sia sprovvisto di buone opere.
Questa considerazione ci libererà da ogni scrupolo. Infatti i nostri avversari si ingannano soprattutto pensando che san Giacomo stabilisca qual è il modo di essere giustificato: invece si limita a cercar di abbattere la vana fiducia di coloro che, per scusare la loro indifferenza a compiere il bene, si attribuiscono falsamente il titolo di fede. Perciò, in qualunque modo girino e rigirino le parole di san Giacomo, non potranno trarne che queste due affermazioni: che un vano immaginare di aver la fede non ci giustifica, e che il credente, lungi dall'accontentarsi di una tal fantasticheria, palesa la sua giustizia attraverso le buone opere.
13. Il passo di san Paolo che citano in questo senso, non li aiuta affatto: che cioè saranno giustificati coloro che mettono in pratica la Legge, non coloro che l'ascoltano (Ro 2.13).
Non voglio prendere la scappatoia di sant'Ambrogio, il quale afferma che ciò è detto perché il compimento della Legge è la fede in Cristo. Mi sembra sotterfugio inutile quando la via maestra è aperta. In quel passo, san Paolo fiacca l'orgoglio dei Giudei, che si vantavano di conoscere la Legge senza metterla in pratica. Affinché, dunque, non si compiacciano tanto in una semplice conoscenza, li ammonisce che se cerchiamo nella Legge la nostra giustizia, bisogna osservarla, e non solo conoscerla. Non mettiamo in dubbio che la giustizia della Legge consista in buone opere e non neghiamo che nell'osservanza completa della santità e dell'innocenza risieda una piena giustizia; ma non è ancora provato che siamo giustificati per mezzo delle opere, a meno che non spunti qualcuno che abbia osservato interamente la Legge.
Che san Paolo non abbia voluto intendere altro, è attestato dal procedere della sua dimostrazione.
Dopo aver condannato per ingiustizia sia i Giudei sia i Gentili, indifferentemente, scende nei dettagli, dicendo che coloro che hanno peccato senza la Legge, periranno senza la Legge, e questo riguarda i Gentili; d'altra parte, coloro che hanno peccato avendo la Legge, saranno giudicati in base ad essa, e questo riguarda i Giudei. Orbene poiché costoro, chiudendo gli occhi sulle loro trasgressioni, si gloriano solo della Legge, aggiunge quel che ben si addiceva, che la Legge non era loro data affinché fossero resi giusti solamente ascoltando la sua voce, ma obbedendo ai suoi comandamenti. Come se dicesse: cerchi tu la giustizia nella Legge? Non riferirti soltanto all'udire, che ha in se poca importanza, ma produci opere per mezzo delle quali si possa dimostrare che la Legge non ti è stata data invano. Tutti venivano meno in ciò, di conseguenza erano spogliati dalla gloria cui miravano. Perciò bisogna piuttosto dedurre dall'affermazione di san Paolo un argomento contrario: che se la giustizia della Legge è situata nel compimento delle buone opere, e se nessuno si può vantare di aver soddisfatto la Legge per mezzo delle sue opere, la giustizia della Legge è nulla fra gli uomini.
14. I nostri avversari ci assalgono con citazioni di credenti che offrono coraggiosamente la loro giustizia a Dio perché sia esaminata, e desiderano ricevere un giudizio in base ad essa. Come quando Davide dice: "Giudicami, Signore, secondo la mia giustizia e secondo l'innocenza che è in me " (Sl. 7.9); "Esaudisci, Signore, la mia giustizia; tu hai provato il mio cuore e l'hai visitato di notte, e non hai trovato in me iniquità " (Sl. 17.1-3); "Il Signore mi retribuirà secondo la mia giustizia, e mi ricompenserà secondo la purezza delle mie mani, poiché ho serbato la retta via, e non mi sono allontanato dal mio Dio " (Sl. 18.21); "Giudicami, Signore, poiché ho camminato con innocenza. Non mi sono seduto nelle file dei bugiardi, e non mi sono mescolato con i malvagi. Non perdere dunque la mia anima con gli iniqui " (Sl. 26.1.9). Ho parlato poco fa della fiducia che i credenti sembrano riporre nelle loro opere. I passi che abbiamo qui citati non pongono gravi problemi, se si considerano nel loro contesto, che è duplice. Infatti i credenti non vogliono che sia la loro vita nel suo insieme ad essere esaminata, per essere assolti o condannati in base ad essa, ma presentano a Dio qualche causa particolare perché li giudichi. In secondo luogo, si attribuiscono giustizia non già in confronto alla perfezione di Dio, ma in confronto ai malvagi ed agli iniqui.
Anzitutto, quando si tratta di giustificare l'uomo, non solo è richiesto che egli sia a posto in una situazione particolare, ma che abbia una piena giustizia per tutto il corso della sua vita, cosa che nessuno ha avuto e avrà mai. Nelle preghiere in cui i santi invocano il giudizio di Dio, per provare la loro innocenza, non vogliono vantarsi di essere puri e netti da ogni peccato, e dire che non v'è nulla da rimproverare nella loro vita: ma dopo aver riposto ogni fiducia di salvezza nella bontà di Dio, certi che egli è il protettore dei poveri per vendicare le offese che si fanno loro, e per difenderli quando li si colpisce ingiustamente, gli affidano la loro causa, perché sono afflitti pur essendo innocenti.
D'altra parte, presentandosi con i loro avversari dinanzi al trono di Dio, non si valgono di una innocenza che possa rispondere alla sua purezza, se fosse esaminata secondo il suo rigore; ma sapendo che la loro sincerità, giustizia e semplicità sono piacevoli e gradite a Dio in confronto alla malizia, cattiveria e astuzia dei loro avversari, non esitano ad invocare Dio come giudice fra loro e gli iniqui. In tal modo, quando Davide diceva a Saul: "Che il Signore restituisca ad ognuno secondo la giustizia e verità che troverà in lui " (1 Re 26.23) non intendeva dire che Dio esaminasse ciascuno in se stesso e lo remunerasse in base ai suoi meriti, ma attestava dinanzi a Dio la sua innocenza nei confronti dell'iniquità di Saul. Anche quando san Paolo si gloria, in base alla buona testimonianza della sua coscienza, di aver fatto il suo dovere con semplicità e integrità (2 Co. 1.2; At. 23.1) non intende valersi di questa gloria quando comparirà di fronte al giudizio di Dio; ma, angustiato dalle calunnie dei malvagi, contrappone alla loro maldicenza la sua lealtà ed onestà, che egli sapeva essere note e gradite a Dio. Vediamo infatti quel che afferma altrove: non si sente per nulla colpevole, ma non per questo è giustificato (1 Co. 4.4). Certo, sapeva bene che il giudizio di Dio è ben diverso dalla stima degli uomini.
Perciò, benché i credenti citino Dio come testimone e giudice della loro innocenza contro la cattiveria degli ipocriti, tuttavia quando hanno a che fare con Dio solo, gridano tutti ad una voce: "Signore, se tu prendi in considerazione le iniquità, chi potrà sussistere? " (Sl. 130.3); e ancora: "Signore, non venire in giudizio con i tuoi servitori, poiché nessun vivente sarà giustificato dinanzi a te " (Sl. 143.2). E, diffidando delle loro opere, riconoscono volentieri che la sua bontà val più della vita (Sl. 63.4).
15. Vi sono altri passi, quasi simili, in cui qualcuno potrebbe trovare problemi. Salomone dice che colui che cammina con integrità, è giusto; che nella via della giustizia si troverà la vita, e che non ci sarà morte (Pr 20.7; 12, z8). Per la stessa ragione, Ez.chiele dichiara che colui che si atterrà alla giustizia vivrà per sempre (Ez. 18.9.21; 33.15).
Non vogliamo negare né dissimulare né oscurare alcuna di queste cose. Ma si presenti anche una sola persona provvista di una simile integrità! Se non si trova alcun uomo mortale che possa farlo, bisogna che o tutti periscano dinanzi al giudizio di Dio, o che abbiano il loro rifugio nella sua misericordia. Tuttavia non neghiamo che l'integrità dei credenti, per quanto imperfetta e molto criticabile, sia per loro come un passo verso l'immortalità; ma da dove proviene questo, se non dal fatto che quando il Signore ha ricevuto un uomo nell'alleanza della sua grazia, non esamina le sue opere secondo i loro meriti, ma le accoglie con paterna benignità, senza che esse ne siano degne? Con queste parole non vogliamo intendere soltanto quel che insegnano gli Scolastici, cioè che le opere ricevono il loro valore dalla grazia di Dio che le accetta; in tal modo costoro intendono che le opere, altrimenti insufficienti per acquistare la salvezza secondo il patto della Legge, ricevono la loro sufficienza per il fatto che sono apprezzate e accettate da Dio. Dico, al contrario, che tutte le opere, contaminate e da altre trasgressioni e dalle loro macchie, non possono avere alcun valore, se non in quanto il nostro Signore non imputa le macchie da cui sono intaccate, e perdona all'uomo tutte le sue colpe, il che significa dare una giustizia gratuita. E non c'è ragione di valersi qua delle preghiere che fa talvolta san Paolo, in cui desidera per i credenti una così grande perfezione, da essere trovati irreprensibili e senza colpa dinanzi al giudizio del Signore (Ef. 1.4; Fl. 2.15; 1 Ts. 3.13). I Celestini, antichi eretici si valevano di tali affermazioni per provare che l'uomo può raggiungere, nella vita presente, una giustizia perfetta. Rispondiamo con sant'Agostino quel che pensiamo possa bastare, che cioè tutti i credenti devono aspirare a comparire un giorno dinanzi a Dio puri e senza macchia; ma poiché la condizione migliore e più perfetta che riusciamo a raggiungere nella vita presente non è altro che un progredire di giorno in giorno, giungeremo a quello scopo quando, spogliati della nostra carne peccaminosa, aderiremo pienamente al nostro Dio.
Non vorrei sembrare ostinato nel negare che si possa attribuire ai santi il titolo di perfezione, purché la si definisca come sant'Agostino, che scrive nel suo terzo libro a Bonifacio: "Quando definiamo "perfetta "la virtù dei santi, alla perfezione di questa è richiesta la conoscenza dell'imperfezione: cioè che in verità e in umiltà i santi riconoscano quanto sono imperfetti ".
CAPITOLO 18
È SBAGLIATO DEDURRE CHE SIAMO GIUSTIFICATI DALLE OPERE PER IL FATTO CHE DIO PROMETTE LORO UNA RICOMPENSA
1. Esponiamo ora i passi in cui è detto che Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere (Mt. 16.27) : "Ciascuno riceverà secondo quel che avrà fatto quando era nel corpo, sia in bene sia in male " (2 Co. 5.10); "Gloria e onore a colui che compirà il bene; tribolazione e angoscia per l'anima di colui che fa' il male " (Ro 2.6.9.10); "Coloro che saranno vissuti con rettitudine conosceranno la risurrezione di vita " (Gv. 5.29); "Venite, voi che siete benedetti dal Padre mio: ho avuto fame e mi avete saziato; ho avuto sete, e mi avete dato da bere " (Mt. 25.34.35). A questi passi sarà opportuno collegare anche quelli in cui la vita eterna è detta "ricompensa ". Come quando è detto che la remunerazione sarà data all'uomo secondo l'opera delle sue mani. "Colui che ubbidisce al comandamento di Dio sarà ricompensato " (Pr 12.14; 13.13); "Rallegratevi, poiché la vostra ricompensa è grande nel cielo ", (Mt. 5.12; Lu 6.23); "Ognuno riceverà la ricompensa secondo il suo lavoro " (1 Co. 3.8).
L'affermazione: Dio darà a ciascuno secondo le sue opere, si può spiegare senza gran difficoltà. Infatti questo modo di dire indica l'effetto piuttosto che la causa per cui Dio ricompensa gli uomini. Senza dubbio il nostro Signore si vale di alcuni stadi per compiere la nostra salvezza: dopo averci eletti, ci chiama; dopo averci chiamati, ci giustifica; dopo averci giustificati, ci glorifica (Ro 8.30). Sebbene egli accolga i suoi nella vita per sua sola misericordia, tuttavia, conducendoli ad essa attraverso le buone opere al fine di compiere in loro la sua volontà secondo l'ordine che ha stabilito, non fa meraviglia se è detto che essi sono incoronati secondo le loro opere, con le quali sono preparati a ricevere la corona di immortalità. Per questa stessa ragione è detto che essi compiono la loro salvezza (Fl. 2.12) quando, dandosi alle buone opere, meditano la vita eterna. Così è loro ordinato di adoperarsi per il cibo che non perisce (Gv. 6.27) , quando acquistano vita credendo in Gesù Cristo; ma è subito aggiunto che il Figlio dell'uomo darà loro questo cibo. Ne consegue dunque che il termine lavorare, o operare, non si oppone alla grazia ma implica semplicemente impegno e iniziativa. Non ne deriva che siano autori della loro salvezza o che la loro salvezza proceda dalle buone opere. Non appena, per mezzo della conoscenza dell'evangelo e dell'illuminazione dello Spirito Santo, sono stati chiamati alla comunione di Cristo, la vita eterna è cominciata in loro; in seguito, il Signore porta a termine l'opera che ha iniziata in loro, fino al giorno di Gesù Cristo (Fl. 1.6). L'opera di Dio è compiuta in loro quando si riconoscono come suoi figli non degeneri, i quali riproducono l'immagine del loro Padre celeste in giustizia e santità.
2. Quanto al termine ricompensa, non ci deve indurre a vedere nelle nostre opere la causa della nostra salvezza. Anzitutto, sia chiaro nel nostro cuore che il Regno dei cieli non è un salario per dei servitori, ma un'eredità per dei figli (Ef. 1.5.18) , e di esso goderanno soltanto coloro che Dio ha adottati come suoi figli e ne goderanno solo a motivo di quella adozione. Non il figlio della schiava sarà erede (come è scritto ) , ma il figlio della donna libera (Ga 4.30). Infatti, nei medesimi passi in cui lo Spirito Santo promette la vita eterna come ricompensa delle opere, chiamandola esplicitamente eredità, dice che essa ci proviene da altro. Cristo, chiamando gli eletti di suo Padre a possedere il regno dei cieli, afferma quali sono le opere che vuole in tal modo ricompensare; ma subito aggiunge che essi lo possederanno per diritto di eredità (Mt. 25.34). Anche san Paolo esorta i servitori che compiono fedelmente il loro dovere a sperare ricompensa dal Signore; ma tosto aggiunge che è una ricompensa di eredità (Cl. 3.24). Vediamo come Cristo e i suoi Apostoli esplicitamente riferiscono la beatitudine eterna non alle opere ma all'adozione di Dio.
Perché dunque, dirà qualcuno, menzionano anche le opere? A questa domanda si potrà rispondere con un solo esempio tratto dalla Scrittura. Prima della nascita di Isacco era stato promesso ad Abramo che avrebbe avuto una progenie in cui sarebbero state benedette tutte le nazioni della terra, e che la sua discendenza sarebbe stata simile alle stelle del cielo ed alla sabbia del mare (Ge 15.5; 17.1; 18.10). Molto tempo dopo egli si prepara ad immolare suo figlio Isacco secondo il comandamento di Dio. Dopo aver dimostrato simile obbedienza riceve la promessa: "l'ho giurato per me stesso, dice il Signore, poiché hai fatto ciò e, per compiacermi, non hai risparmiato il tuo unico figlio: io ti benedirò e moltiplicherò la tua progenie come le stelle del cielo e la sabbia del mare; e nella tua progenie saranno benedette tutte le nazioni della terra, perché hai ubbidito alla mia voce " (Ge 22.3.16.18). Che cosa significa questo? Abramo aveva egli meritato, con la sua obbedienza, quella benedizione, che gli era stata promessa prima che gli fosse dato il comandamento? In questo caso vediamo senza possibilità di equivoci che il Signore remunera le opere dei credenti con quei medesimi benefici, che già aveva loro promesso prima che avessero pensato di far qualcosa, e per il tempo in cui egli non aveva alcun motivo di far loro del bene, all'infuori della sua misericordia.
3. Non si tratta né di inganno né di presa in giro, quando dice che ricompensa le opere con quel che aveva dato gratuitamente prima delle opere. Infatti, volendo che meditiamo il compiersi e il godimento delle cose che ha promesse esercitandoci nelle buone opere, e che per mezzo loro noi camminiamo per giungere alla speranza beata che egli ci ha proposto in cielo, è a ragione che e loro assegnato il frutto delle promesse, poiché esse sono come dei mezzi per condurci a quel godimento. L'una e l'altra cosa sono state molto ben espresse dall'apostolo, quando dice che i Colossesi seguivano la carità, per la speranza che era loro posta in cielo, della quale avevano udito parlare dal vero insegnamento dell'evangelo (Cl. 1.4.5). Dicendo che hanno preso coscienza per mezzo dell'evangelo del fatto che l'eredità celeste era loro preparata, dimostra che la speranza di questa è fondata solo in Cristo, non già nelle opere. A questo si accorda quanto dice san Pietro, che siamo messi a parte dalla potenza di Dio per mezzo della fede, per la salvezza che è preparata per essere a suo tempo manifestata (1 Pi. 1.5). Quando dice che pertanto si sforzano di compiere il bene, dimostra che i credenti, per tutto il tempo della loro vita, devono correre per afferrarlo.
Affinché non pensiamo che il salario che il Signore ci promette si debba misurare in base ai meriti, ci propone una parabola nella quale egli si paragona ad un padre di famiglia che manda nella sua vigna tutti coloro che incontra, alcuni nella prima ora del giorno, altri nella seconda, altri nella terza, altri nell'undicesima. Quando giunge la sera, distribuisce a tutti uguale ricompensa (Mt. 20.1). L'esegesi di questa parabola è data molto bene e brevemente nel libro intitolato De vocatione gentium, che si attribuisce a sant'Ambrogio. Trattandosi di un antico Dottore, preferisco servirmi delle sue parole anziché delle mie: "Con questo paragone "dice "il Signore ha voluto dimostrare che la chiamata di tutti i credenti, sebbene ci sia qualche diversità nell'apparenza esteriore, appartiene alla sola sua grazia. Coloro dunque, che dopo aver lavorato soltanto un'ora, sono resi uguali a quelli che hanno lavorato per tutto il giorno rappresentano la condizione di coloro che Dio, per magnificare l'eccellenza della sua grazia, chiama sul finire della loro vita, per remunerarli secondo la sua clemenza, non pagando loro il salano del loro lavoro ma spandendo su loro le ricchezze della sua bontà, così come li ha chiamati senza le loro opere, affinché anche coloro che hanno lavorato a lungo, e non ricevono più degli ultimi, capiscano che ricevono tutto dal dono della sua grazia, e non come ricompensa del loro lavoro ".
C'è anche da notare che in tutti i passi che definiscono la vita eterna come ricompensa delle buone opere, essa non è semplicemente intesa come la comunione che abbiamo con Dio quando egli ci accoglie nel nostro Signor Gesù per farci suoi eredi, ma come il possesso o il godimento della beatitudine che abbiamo nel suo regno; lo implicano anche le parole di Cristo, quando dice: "Nel secolo a venire avrete la vita eterna " (Mr. 10.30) , e: "Venite, possedete il regno " (Mt. 25.34) , ecc. Per questo motivo san Paolo chiama la rivelazione, che avverrà nell'ultimo giorno, "nostra adozione "; e spiega in seguito il termine come redenzione del nostro corpo (Ro 8.18). Del resto, come colui che è lontano da Dio si trova nella morte eterna, così chiunque è ricevuto nella grazia di Dio, per aver comunione ed essere unito a lui, è trasportato dalla morte alla vita; e questo avviene unicamente con la grazia dell'adozione. E se a modo loro si dimostrano ostinati sul termine ricompensa, presenteremo loro sempre all'opposto quel che dice san Pietro, che la vita eterna è la ricompensa della fede (1 Pi. 1.9).
4. Non pensiamo però che lo Spirito Santo, con le promesse precedentemente esposte, voglia apprezzare la dignità delle opere come se esse meritassero qualche ricompensa. Infatti la Scrittura non ci lascia nulla di cui ci possiamo gloriare dinanzi al volto di Dio. Al contrario, essa ha unicamente lo scopo di confondere il nostro orgoglio, umiliarci, abbatterci e annullarci completamente. Ma con le promesse suddette lo Spirito Santo viene incontro alla nostra debolezza, che altrimenti cadrebbe e verrebbe subito meno, se non fosse in tal modo sostenuta e consolata. Anzitutto, ciascuno consideri quanto è duro abbandonare e rinunciare non solo a tutte le cose che ama, ma anche a se stesso. Tuttavia, è la prima lezione che Cristo dà ai suoi discepoli, cioè a tutti i credenti; e per tutto il corso della loro vita li tiene sotto la disciplina della croce, affinché non ripongano il loro cuore nel desiderio o nella sicurezza dei beni terreni. In breve, li tratta in modo tale che, da qualunque lato si volgano, per tutta l'estensione di questo mondo, non vedano che disperazione. Infatti san Paolo dice che siamo i più miserabili fra tutti gli uomini, se speriamo per questa vita soltanto (1 Co. 15.19). Affinché dunque non perdiamo coraggio in simili angosce, il Signore ci assiste e ci invita a levare gli occhi e a guardare più lontano, promettendoci che troveremo in lui la beatitudine che non vediamo in questo mondo. Egli la chiama ricompensa, salario, retribuzione, non già perché valuti il merito delle nostre opere, ma perché vuol significare che è una ricompensa per le miserie, tribolazioni ed obbrobri che sopportiamo sulla terra. Perciò non v'è alcun male se chiamiamo remunerazione, sull'esempio della Scrittura, la vita eterna; in essa il Signore fa passare i suoi servitori dalla fatica al riposo, dall'afflizione alla consolazione, dalla tristezza alla gioia, dalla povertà alla ricchezza, dall'ignominia alla gloria; infine, egli trasforma tutti i mali che essi hanno sopportato in beni maggiori. Parimenti non ci sarà alcun inconveniente nel ritenere che la santità di vita è la via, non già che ci apre la gloria celeste, ma per il cui mezzo Dio conduce i suoi eletti alla manifestazione di quella, visto che gli piace glorificare coloro che ha santificati (Ro 8.30). Purché non immaginiamo alcuna corrispondenza tra il merito e la ricompensa. In questo si ingannano grandemente i Sofisti 2, poiché non considerano il fine che abbiamo esposto. Non è forse una presa in giro, quando Dio ci chiama ad uno scopo, volgere gli occhi da un'altra parte? Nulla è più chiaro del fatto che la ricompensa è promessa alle buone opere, non per gonfiare di gloria il nostro cuore, ma per dar sollievo alla debolezza della nostra carne. Colui dunque che vuol dedurre in tal modo un qualche merito dalle opere, o farne un contrappeso, si allontana dalla meta che Dio propone.
5. Quando la Scrittura afferma che Dio, giusto giudice, darà la corona di giustizia ai suoi servitori (2Ti 4.8) , rispondo con sant'Agostino: "In che modo darebbe la corona come giusto giudice, se dapprima non avesse dato la grazia come padre misericordioso? E come vi sarebbe giustizia, se non preceduta dalla grazia che giustifica l'iniquo? E in che modo potremmo aver diritto a questa corona, se tutto quel che abbiamo non ci fosse stato dato senza esser dovuto? ". Ed aggiungo: Come metterebbe le nostre opere in conto di giustizia, se non nascondesse con la sua indulgenza la loro ingiustizia? Come le riterrebbe degne di ricompensa, se non cancellasse con la sua infinita benignità quel che in esse è degno di castigo? Aggiungo questo alle affermazioni di sant'Agostino, che è solito chiamare "grazia "la vita eterna, per il fatto che ci è largita per i doni gratuiti di Dio e non per le nostre opere. La Scrittura ci umilia ancor più, e tuttavia ci innalza. Oltre a proibirci di gloriarci delle nostre opere, doni gratuiti di Dio, ci fa anche vedere che sono sempre intaccate da impurità, tanto che esse non possono soddisfare né piacere a Dio, se esaminate in base al suo rigore; ma affinché il nostro zelo non si spenga, è detto pure che piacciono a Dio perché egli le sopporta.
Benché sant'Agostino usi un linguaggio un po' diverso dal nostro, concordiamo sul senso e sulla sostanza. Nel terzo libro a Bonifacio, facendo un paragone fra due uomini di cui uno abbia una vita così santa e perfetta da poter essere considerato un angelo, e l'altro abbia sì una vita buona e onesta ma non così perfetta e santa, conclude: "Questo secondo, che per certo pare inferiore all'altro quanto alla sua vita, eccelle maggiormente per la retta fede che ha in Dio, per mezzo della quale vive e in base alla quale si accusa dei suoi peccati; in tutte le sue buone opere loda Dio, attribuendogli ogni gloria e prendendo su di se l'ignominia, ricevendo da lui il perdono dei suoi peccati e la disposizione a compiere il bene; così, al momento di partire da questo mondo, sarà accolto in Paradiso, nella comunione di Cristo. Perché questo, se non per la sua fede? Sebbene essa non salvi l'uomo se rimane staccata dalle opere, in quanto si tratta di una fede viva che opera attraverso la carità, tuttavia essa sola è la causa per cui i peccati sono perdonati. Come dice il Profeta: "Il giusto vive di fede " (Hab 2.4) , e senza quella anche le opere che paiono buone sono convertite in peccato ".
Egli afferma esplicitamente in questo passo quel che dibattiamo e manteniamo al di sopra di ogni cosa: la giustizia delle opere dipende e deriva dall'essere queste accettate da Dio con perdono, cioè in chiave di misericordia, non di giudizio.
6. Altri passi hanno un senso affine a quelli ora spiegati. Quando è detto: "Fatevi degli amici con delle ricchezze ingiuste, affinché quando verrete meno vi accolgano nel Regno di Dio " (Lu 16.9) e: "Insegna ai ricchi di questo mondo a non inorgoglirsi e a non sperare nell'incertezza delle loro ricchezze, ma nel Dio vivente. Esortali a compiere il bene, ad esser ricchi in buone opere e a farsi un buon tesoro per l'avvenire, al fine di afferrare la vita eterna " (1 Ti. 6.17) , vediamo che le buone opere sono paragonate a ricchezze, delle quali goderemo, come è detto, nella beatitudine futura.
Non capiremo mai veramente questi testi, se non riusciremo a concentrare la nostra attenzione sull'intenzione dello Spirito Santo nel pronunciarli. Se è vero ciò che Cristo dice: che il nostro cuore si fissa là dov'è il nostro tesoro (Mt. 6.21) , come i figli del presente secolo faticano adoperandosi interamente ad accumulare le cose che appartengono alla felicità della vita presente, così bisogna che i credenti, consci che questa vita svanirà come un sogno, proiettino là dove dovranno vivere per l'eternità le cose di cui vogliono rettamente godere per sempre. Dobbiamo seguire l'esempio di coloro che si trasferiscono definitivamente da un luogo all'altro. Mandano avanti ogni loro bene e non dispiace loro di esserne privi per qualche tempo, ritenendosi tanto più felici quanto più beni hanno nel luogo in cui devono finire la loro vita. Se crediamo che il cielo è la nostra patria e la nostra casa, conviene trasferirvi le nostre ricchezze piuttosto che trattenerle qui, per abbandonarle quando dovremo andarcene improvvis.mente. Qual è il modo per trasferirvele? Sovvenendo alle necessità dei poveri: tutto quello che daremo loro, il Signore afferma esser stato dato a lui (Mt. 25.40); ne deriva la promessa che chiunque dà ai poveri, presta a Dio con interesse (Pr 19.17); e: "Colui che seminerà con larghezza, mieterà con abbondanza " (2 Co. 9.6). Tutta la carità che facciamo ai nostri fratelli è come messa al sicuro nelle mani di Dio. Egli, guardiano fedele, ci restituirà un giorno il tutto, con interesse molto elevato.
Come, dirà qualcuno, le opere di carità sono forse tenute in tale considerazione presso Dio da essere paragonabili a ricchezze a lui affidate? Perché dovremmo vergognarci di parlare in questo modo, quando la Scrittura lo attesta così esplicitamente? Ma se uno vuole attribuire dignità alle opere, oscurando la benignità di Dio, queste testimonianze non gli saranno di alcun aiuto per confermare il suo errore. Non sapremmo infatti dedurre altro se non che la bontà e l'indulgenza di Dio verso di noi sono eccezionali: per stimolarci ad agire rettamente ci promette che nessuna buona opera da noi compiuta sarà persa, anche se tutte sono indegne non solo di essere ricompensate, ma di essergli gradite.
7. Distorcono ancor più gravemente le parole dell'apostolo il quale, rincuorando i Tessalonicesi nelle loro tribolazioni, afferma che sono loro mandate affinché siano trovati degni del Regno di Dio per il quale soffrono (Il Tessalonicesi 1.5). Infatti, dice, e cosa giusta da parte di Dio il rendere afflizione a coloro che vi affliggono, e a voi il riposo, quando il Signor Gesù sarà rivelato dal cielo. L'autore dell'epistola agli Ebrei dice: "Dio non è così ingiusto da dimenticare l'opera vostra e l'amore da voi mostrato nel suo nome, nel dare con generosità parte dei vostri beni ai suoi fedeli " (Eb. 6.10).
Rispondo al primo passo dicendo che san Paolo non vuole indicare in tal modo alcuna dignità di merito, ma vuol soltanto dire che, come il Padre celeste ci ha scelti per figli, così vuole che siamo resi conformi al suo figlio primogenito (Ro 8.29). Come dunque Cristo ha sofferto prima di entrare nella gloria che gli era destinata, così bisogna che entriamo nel Regno dei cieli attraverso parecchie tribolazioni (Lu 24.26; At. 14.22). Quando sopportiamo afflizioni per amore del nome di Cristo, si imprimono in noi i segni con cui il nostro Signore è solito identificare le pecore del suo gregge. Per questo motivo siamo ritenuti degni del Regno di Dio, perché portiamo nel nostro corpo i segni di Gesù Cristo, caratteristici dei figli di Dio. A questo si riferisce pure l'affermazione che portiamo nel nostro corpo la morte di Cristo, affinché la sua vita sia manifestata in noi, resi simili alle sue sofferenze per giungere parimenti alla risurrezione (Ga 6.17; 2 Co. 4.10; Fl. 3.10). La ragione aggiunta da san Paolo, che è giusto da parte di Dio il dar riposo a coloro che avranno operato, non vuol provare alcuna dignità delle opere ma solo confermare la speranza della salvezza. In altre parole: come si addice al giusto giudizio di Dio il far vendetta sui vostri nemici degli oltraggi e delle molestie che vi avranno arrecato, similmente si addice che egli vi dia requie e riposo dalle vostre miserie.
L'altro passo, che ribadisce che le buone opere non devono essere dimenticate da Dio, tanto che Dio parrebbe ingiusto se le dimenticasse, deve essere inteso in questo senso: il Signore, per risvegliare la nostra pigrizia, ci ha dato speranza che tutto quel che faremo per amor del suo nome non andrà perso. Ricordiamoci che tale promessa, come tutte le altre, non ci gioverebbe punto se non fosse preceduta dal patto gratuito su cui riposa ogni certezza della nostra salvezza. Dobbiamo pertanto avere sicura fiducia che la ricompensa per le nostre opere non sarà negata dalla benignità di Dio, sebbene ne siano più che indegne. L'Apostolo dunque, per confermarci in questa attesa, dice che Dio non è ingiusto e mantiene le promesse fatte. Questa giustizia di Dio si riferisce più alla verità della sua promessa che all'equità di renderci quel che ci è dovuto. In questo senso c'è una significativa dichiarazione di sant'Agostino che ha da esser bene impressa nella nostra memoria, poiché questo sant'uomo non ha esitato a ripeterla parecchie volte: "Il Signore è fedele: si è fatto debitore per noi non già prendendo qualcosa da noi, ma promettendoci tutto generosamente ".
8. I nostri farisei citano anche queste affermazioni di san Paolo: "Se avessi tutta la fede del mondo, fino a trasportare le montagne, e mancassi di carità, non sarei nulla ": "Ora queste tre cose durano, fede, speranza e carità; ma la più grande è la carità " (1 Co. 13.2.13); e: "Soprattutto abbiate in voi carità, che è il vincolo della perfezione " (Cl. 3.14).
Quanto alle due prime, si sforzano di provare che siamo giustificati per mezzo della carità piuttosto che per mezzo della fede, perché è una virtù più eccelsa. Ma questo sofisma è facilmente confutabile. Abbiamo già esposto che quanto è detto nella prima di quelle affermazioni, non riguarda per nulla la vera fede; riconosciamo che la seconda si riferisce alla vera fede, a cui egli antepone la carità, non perché più meritoria, ma in quanto è più fruttuosa, si estende più lontano, serve a molti, mantiene sempre il suo vigore, mentre l'uso della fede è solo per un tempo. Se consideriamo l'eccellenza, l'amore di Dio di cui qui san Paolo non tratta avrebbe a buon diritto il primo posto, perché tende soltanto al fine di edificarci reciprocamente in Dio, mediante la carità.
Ma poniamo il caso che la carità sia più eccelsa della fede in tutti i sensi; quale persona di buon senso ne dedurrà che essa ha maggior potere di giustificare? La forza di giustificazione della fede non risiede in una qualche dignità dell'opera, poiché la nostra giustificazione sussiste per la sola misericordia di Dio e per merito di Cristo. Se la fede giustifica è solo per il fatto che afferra la giustizia offertale in Cristo.
Se si chiede ai nostri avversari in che senso danno alla carità la forza di giustificare, risponderanno che, essendo virtù gradita a Dio, la giustizia ci è imputata per merito suo, in quanto è gradita alla bontà divina. Da ciò vediamo come procede bene il loro argomento! Diciamo che la fede giustifica; non che ci procuri giustizia per mezzo della sua dignità, ma perché è uno strumento per mezzo del quale otteniamo gratuitamente la giustizia di Cristo. Essi, tralasciando la misericordia di Dio e non menzionando Cristo in cui si assomma tutta la giustizia, continuano ad affermare che siamo giustificati per mezzo della carità, la quale è più eccelsa. Come se uno dicesse che un re è più adatto di un calzolaio a fare una scarpa, poiché è molto più degno e più nobile. Questo solo argomento è sufficiente per farci capire che tutte le scuole sorboniche non hanno mai inteso il senso della giustificazione per fede.
Se qualche litigioso contesta quel che ho detto, affermando che do un altro significato al termine paolino di fede e pretendendo che non v'è motivo di intenderlo qui in modo diverso, rispondo che ho buone ragioni per farlo. Poiché tutti i doni che aveva elencati si riducono alla fede e alla speranza, per il fatto che hanno a che fare con la conoscenza di Dio, facendo un sommario alla fine del capitolo, li comprende tutti sotto questi due termini. Come se dicesse: la profezia, le lingue, il dono di interpretazione e la scienza tendono tutte allo scopo di condurci alla conoscenza di Dio. Non conosciamo Dio, in questa vita mortale, che per mezzo della fede e della speranza. Di conseguenza, quando menziono la fede e la speranza, comprendo tutti questi doni. Questi tre, dunque, durano: fede, speranza e carità; cioè, per quanta varietà di doni ci sia, si riferiscono tutti a questi tre, dei quali la carità è il principale. Riguardo al terzo passo, deducono che se la carità è il vincolo della perfezione, lo è pure della giustizia, che non è altro che perfezione. In primo luogo, tralasciando il fatto che san Paolo definisce perfezione l'unione dei membri di una Chiesa ben ordinata, e che confessiamo essere l'uomo perfetto dinanzi a Dio per mezzo della carità, quale nuova conclusione traggono da questo? Replicherò sempre che non giungiamo mai a quella perfezione se non compiamo la carità. Ne potrò dedurre, poiché ogni uomo è ben lontano dal compiere la carità, che ogni speranza di perfezione gli è tolta.
9. Non intendo star dietro a tutte le testimonianze che quei litigiosi della Sorbona attingono sconsideratamente qua e là alla Scrittura per polemizzare contro di noi. Fanno citazioni così ridicole, che a prenderle in considerazione si diventa sciocchi come loro.
Porrò dunque termine a questo argomento dopo aver spiegato un'affermazione di Cristo che amano moltissimo: la risposta al dottore della Legge. Costui gli aveva chiesto: "Che cos'è necessario alla salvezza? "e Cristo risponde: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti " (Mt. 19.17). Che altro vogliamo, dicono, se l'autore della grazia ci ordina lui stesso di acquistare il Regno di Dio con l'osservare i comandamenti?
Come se non fosse noto che Cristo ha sempre adeguato le sue risposte a coloro cui aveva a che fare. In questo passo era stato interrogato da un dottore della Legge sul mezzo per ottenere la beatitudine eterna; non con una domanda generica, ma con le parole: che cosa devono fare gli uomini per giungere alla vita? Sia l'interrogante, sia la domanda inducevano il Signore ad una risposta di quel genere. Quel dottore, gonfio di una falsa opinione sulla giustizia legale, era accecato dalla fiducia nelle sue opere. Inoltre non chiedeva altro, se non quali sono le opere di giustizia per mezzo delle quali si acquista la salvezza. A buon diritto è rimandato alla Legge, in cui abbiamo uno specchio perfetto della giustizia. Anche noi predichiamo ad alta voce e con chiarezza che bisogna osservare i comandamenti, se si cerca la giustizia nelle opere.
È necessario che tutti i cristiani conoscano questo insegnamento, altrimenti come avrebbero il loro rifugio in Cristo, se non sapessero di barcollare in una mortale rovina? E come saprebbero quanto sono lontani dalla via della vita, se non l'avessero conosciuta? Non sono dunque rettamente istruiti ad avere il loro rifugio in Cristo per trovare la salvezza, fintantoché non comprendono quale differenza esiste fra la loro vita e la giustizia di Dio, contenuta nella Legge.
Riassumendo: se cerchiamo salvezza nelle nostre opere, dobbiamo osservare i comandamenti che ci istruiscono in una giustizia perfetta. Ma non dobbiamo fermarci qui se non vogliamo venir meno nel corso del cammino, poiché nessuno di noi li sa osservare. Tutti siamo esclusi dalla giustizia della Legge, ci è dunque necessario cercare altrove rifugio e soccorso, cioè nella fede in Cristo. Come il Signor Gesù, in codesto passo, rimanda alla Legge il dottore della Legge gonfio di una vana fiducia nelle sue opere, affinché si riconosca povero peccatore soggetto a condanna, così in un altro passo consola con la promessa della sua grazia gli altri, umiliati da questa presa di coscienza, e li consola senza menzionare la Legge: "Venite a me "dice "voi tutti che siete oppressi e travagliati: io vi darò sollievo e troverete riposo alle vostre anime " (Mt. 11.28.29).
10. Infine, quando i nostri avversari sono stanchi di capovolgere la Scrittura, cercano di sorprenderci con ragionamenti capziosi e con vani sofismi. Cavillano anzitutto sul fatto che la fede è chiamata opera (Gv. 6.29) , e che di conseguenza faccia mo male ad opporla alle opere, come fosse cosa diversa.
Come se la fede, che è obbedienza alla volontà di Dio, ci acquistasse giustizia per suo merito e non piuttosto in quanto, accettando la misericordia di Dio, ci rende certi della giustizia di Cristo offertaci nell'evangelo per gratuita bontà del Padre celeste. Mi perdonino i lettori se non mi attardo a controbattere simili inezie: sono così deboli e frivole che si dileguano da sole.
Ma mi pare opportuno rispondere a una loro obiezione che potrebbe far sorgere problemi nei semplici, avendo qualche parvenza di verità. Se, dicono, le cose opposte sono rette da una stessa legge, e se ogni peccato ci è messo in conto di ingiustizia, conviene che ogni buona opera sia messa in conto di giustizia.
La risposta secondo cui la condanna degli uomini procede dalla solo infedeltà e non dai peccati singoli mi pare insoddisfacente Concedo loro che la fonte e la radice di tutti i mali risiede nel l'incredulità. Si comincia coll'abbandonare e rinnegare Dio, e seguono tutte le trasgressioni della sua volontà. Ma sono costretto a contraddirli quando sembrano mettere su di una stessa bilancia le buone e le cattive opere per valutare la giustizia o l'ingiustizia umana. La giustizia delle opere consiste in una perfetta obbedienza alla Legge. Nessuno può dunque essere giusto per mezzo delle opere se non segue linearmente la legge di Dio per tutta la sua vita. Appena sbaglia su qualche punto, decade nell'ingiustizia. È pertanto evidente che la giustizia non risiede in alcune buone opere, ma nell'osservare interamente e compiutamente la volontà di Dio. Dobbiamo giudicare l'iniquità in tutt'altro modo. Chiunque ha commesso adulterio o rubato, con un solo delitto è colpevole di morte in quanto ha offeso la maestà di Dio. Qui i nostri sofisti si ingannano, non prendendo in considerazione quello che dice san Giacomo: "Colui che ha trasgredito un comandamento è colpevole su tutti, perché Dio che ha proibito di uccidere, ha parimenti proibito di rubare " (Gm. 2.10.2). Non deve dunque sembrare assurdo affermare che la morte è il giusto salario di ogni peccato, visto che tutti sono degni della collera e della vendetta di Dio. Ma sarebbe improprio capovolgere l'argomento: che l'uomo possa cioè acquistare la grazia di Dio con una sola buona opera, mentre per molte colpe provocherà la sua collera.

www.iglesiareformada.com
Biblioteca
Istituzioni della religione cristiana
di Giovanni Calvino (1559)